di Damiano Bondi e Alfonso Lanzieri
Cristianesimo e secolarizzazione sono due termini che nel linguaggio comune spesso vengono utilizzati per indicare due realtà opposte. La secolarizzazione sarebbe quel processo di progressiva emancipazione della società dalla religione e, dunque, secolarizzazione e scristianizzazione sarebbero un po’ sinonimi. Per sapere però che le cose sono più complesse di così, e che tra cristianesimo e secolarizzazione il rapporto non è di mera opposizione, basta anche solo una conoscenza superficiale dell’enorme dibattito sulla categoria di “secolarizzazione”. Tanto per fare uno degli esempi possibili, si può pensare al fortunato saggio di Brad Gregory, Gli imprevisti della Riforma. Come una rivoluzione religiosa ha secolarizzato la società (pubblicato in Italia da Vita e Pensiero nel 2014), in cui si il farsi della modernità è pensato come effetto a lungo termine della Riforma protestante e delle dispute dottrinali che animarono la polemica interna al cristianesimo in quei decenni. In quel saggio, la risposta alla domanda “chi fa la secolarizzazione?” spiazza il luogo comune, perché la risposta è “il cristianesimo”.

Chi scrive tende a condividere l’idea di Gregory, tuttavia la trova incompleta. Iniziamo col dire che, se per secolarizzazione si deve intendere quel processo che, partendo dalla volontà di portare a chiarezza razionale ogni aspetto dell’esistenza (si pensi su questo alla prospettiva di Max Weber), e con ciò stabilire l’autonomia del mondo nei suoi vari ambiti, allora tale cammino ha inizio più o meno nel VI secolo a. C. in Grecia e coincide con la nascita della filosofia. Cos’altro è stata, infatti, la filosofia fin dai suoi albori se non un nuovo modo di concepire la sapienza, in base al quale ciò che è vero dev’essere tale nella luce del Logos a prescindere dalle autorità di carattere religioso, politico e familiare? La secolarizzazione inizia lì.
L’avvento del cristianesimo rappresenta senz’altro una novitas, e tuttavia non contraddice questo pensiero. Il celebre prologo del vangelo di Giovanni dice che ho lógos sàrx eghéneto. Il Logos, il Senso del mondo si è fatto carne in Gesù di Nazareth. Da qui la pretesa inaudita del cristiano (e non sempre del tutto compresa dai credenti nella sua ampiezza): nella misura in cui la Chiesa primitiva credette che il suo Dio e la sua fede fossero legati alla verità, i cristiani si sono schierati dalla parte dei filosofi che contestavano le religioni i cui miti non sarebbero che illusioni. La scelta per il logos, in opposizione al mythos, si traduce nella scelta per il Dio dei filosofi e contro gli dèi delle religioni. I prodromi del “disincanto” del mondo, sul quale tanto insisterà Weber, sono già qui. Non è affatto un caso, allora, che l’accusa mossa a Socrate dai suoi concittadini e quella mossa ai primi cristiani nel contesto delle persecuzioni dell’impero romano, fatte salve ovviamente tutte le distinzioni opportune, sia la stessa: ateismo. Sia il maestro di Platone che i primi cristiani venivano considerati “atei” perché la loro dottrina metteva in discussione la devozione al pantheon della religione osservata dalla città. A tal proposito, è interessante ricordare come Giustino, filosofo e martire cristiano del primo secolo, annoverasse Socrate tra i cristiani proprio per la sua fedeltà al Logos.

Naturalmente il cristianesimo concepisce la rivelazione di Dio come una realtà che supera la ragione e che sarebbe stata inattingibile per quest’ultima se “i cieli non si fossero aperti”. Dunque, nessuna banale continuità tra le due realtà, che anzi saranno sempre in dialettica. Tuttavia, affermando che il Logos si fa carne, il cristianesimo mescola le carte della relazione trascendenza-immanenza. La prima non diventa la seconda, tuttavia questa è abitata dalla prima: senza separazione né confusione, per richiamare il dogma delle due nature di Cristo, quella umana e quella divina.
Se quanto detto, pur nella sua sinteticità, è corretto, ecco che il mondo è confermato nella sua autonomia e nella sua “logicità” dall’Incarnazione. Il Logos astratto dei greci entra nella storia. Quest’ultima è così rivestita di dignità. Di più: se il Logos si fa “mondo”, quest’ultimo, lo abbiamo accennato, è allora pregno di “senso”. Anche le cose più umili devono e possono essere indagate. La scienza moderna, nei suoi germi iniziali, può giovarsi di questo sfondo cui non sempre si fa cenno; si tende piuttosto, ci pare, a valorizzare quelle letture che vedono invece nella disponibilità (e dunque manipolabilità) di un mondo separato rispetto a un Dio creatore trascendente, la forma mentis propizia per la nascita della moderna indagine della natura. Senza voler preferire in modo netto l’una o l’altra lettura, ci accontentiamo in questa sede di mostrarle insieme per, quantomeno, offrire quella che a nostro avviso rappresenta una visione più adeguata alla complessità di quel frangente storico e dei suoi sviluppi. Il compianto Paolo Rossi ha dedicato una vita a studiare “La nascita della scienza moderna in Europa”, e rimandiamo ai suoi lavori per chi volesse approfondire questo tema.

Sulla base dell’insieme delle considerazioni qui svolte, allora, l’autonomia delle cosiddette realtà temporali, non rappresenta – come anticipato all’inizio – quanto di opposto ci sia al cristianesimo, anzi ha in quest’ultimo un promotore: “Il cristianesimo è l’unica religione – ha detto il filosofo francese Rémi Brague – che si accontenta di essere solo una religione. Non esiste una cucina cristiana, una medicina cristiana, un diritto cristiano, una filosofia cristiana. L’uomo può scoprire tutto questo da solo. Il cristianesimo ha davvero lasciato in pace l’intera cultura profana”.
La questione – e qui si tocca un problema non da poco – sta semmai in come tale autonomia debba essere pensata. Si pensi ad esempio alla celebre tesi di Böckenförde secondo cui “lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non può garantire”. Se si legge per intero il passo si capisce bene che Böckenförde non intende affatto, come secondo una certa lettura, lamentare la perdita di quei “valori cristiani” senza cui non si darebbe possibilità di convivenza civile, quanto piuttosto rinvenire un possibile suicidio dello Stato liberale stesso, il quale deriva anche dall’idea cristiana che il potere politico e quello religioso siano cose diverse.
Scrive infatti lo studioso tedesco:
«lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non può garantire. […] Da una parte esso può esistere come Stato liberale solo se la libertà, che esso garantisce ai suoi cittadini, si regola dall’interno, cioè a partire dalla sostanza morale del singolo e dall’omogeneità della società. D’altra parte, però, se lo Stato cerca di garantire da sé queste forze regolatrici interne, cioè coi mezzi della coercizione giuridica e del comando autoritativo, esso rinuncia alla propria liberalità e ricade – su un piano secolarizzato – in quella stessa istanza di totalità da cui si era tolto con le guerre civili confessionali»

Come si vede, il punto è che la libertà, che Böckenförde fa derivare positivamente dalla secolarizzazione in quanto processo storico di divisione dei poteri, non può mai essere imposta dall’alto per mano di un potere politico, pena la perdita della libertà stessa e dunque il suicidio dello Stato liberale. «Questo è il grande rischio che esso si è assunto per amore della libertà», conclude lo studioso tedesco. Lo stato liberale, in questo cristiano e secolare, rischia di rovesciarsi in uno Stato totalitario nel momento in cui pretende di imporre dall’alto quella libertà che deve invece riconoscere ad ogni essere umano.
Le verità vi farà liberi, dal momento in cui si incarna nella persona.
Buon Natale.
