Il famoso testo firmato in tandem dai filosofi Agamben e Cacciari, dedicato al Green pass e, più in generale, ad una critica severissima delle politiche sanitarie governative, ha fatto molto parlare di sé in questi giorni. Si tratta, infatti, di due figure rilevanti del mondo culturale italiano e non, e i toni usati dai due sono stati tutt’altro che moderati. Rischio per la democrazia, dispotismo sanitario, discriminazione: questi sono, a detta degli autori, i concreti pericoli già presenti tra noi (leggi qui l’intervento di Agamben-Cacciari https://www.iisf.it/index.php/progetti/diario-della-crisi/massimo-cacciari-giorgio-agamben-a-proposito-del-decreto-sul-green-pass.html). Il centro della loro argomentazioni è il seguente e va letto per intero: «Nessuno invita a non vaccinarsi! Una cosa è sostenere l’utilità, comunque, del vaccino, altra, completamente diversa, tacere del fatto che ci troviamo tuttora in una fase di “sperimentazione di massa”. […] Il vaccinato non solo può contagiare, ma può ancora ammalarsi: in Inghilterra su 117 nuovi decessi 50 avevano ricevuto la doppia dose. In Israele si calcola che il vaccino copra il 64% di chi l’ha ricevuto. Le stesse case farmaceutiche hanno ufficialmente dichiarato che non è possibile prevedere i danni a lungo periodo del vaccino, non avendo avuto il tempo di effettuare tutti i test di genotossicità e di cancerogenicità». Con questo passaggio, i due autori cercano di “demitizzare” l’efficacia del vaccino, benché concedano, ovviamente, che si tratti di un’arma utile e da incoraggiare se possibile. Chi scrive non è né un medico né un ricercatore scientifico, quindi non mi confronto con le argomentazioni dei due autori sul piano del merito ma del metodo. Anche un non specialista, infatti, su temi così importanti ha il dovere di informarsi bene: pesare la credibilità delle fonti, leggere i dati, provare a interpretarli correttamente (magari facendosi aiutare, se possibile, da chi è più competente) e poi tentare di emettere un giudizio personale, il più possibile adeguato alla realtà. “È necessario scegliere dopo aver giudicato e non giudicare dopo aver scelto”, ci ricorda Cicerone. Orbene, i fugaci passaggi di Agamben e Cacciari, in questo, sono problematici.
Rischio per la democrazia, dispotismo sanitario, discriminazione: questi sono, a detta degli autori, i concreti pericoli già presenti tra noi
Tanto per cominciare, per quanto ne sappiamo oggi, i vaccini riducono non solo la malattia ma anche la trasmissione del covid-19 di un fattore tra il 70 e l’85%: e i vaccinati che vengono comunque infettati hanno una carica virale ridotta, il che riduce la capacità di contagiare, e rallenta il diffondersi del virus. Omettere questo, rende del tutto fuorviante la pur vera affermazione «il vaccinato non solo può contagiare, ma può ancora ammalarsi». Inoltre, il vaccinato che si contagia ha un rischio bassissimo di sviluppare una forma grave della malattia: dopo i 35 giorni si osserva una stabilizzazione della riduzione che è circa dell’80% per il rischio di diagnosi, del 90% per il rischio di ricovero e del 95% per il rischio di decesso.
Anche il passaggio sull’Inghilterra è fuorviante. Il tutto nasce da dati esatti, diffusi dal ministero della salute inglese in un report del 18 giugno, i quali parlano di 35.521 casi di variante Delta tra persone non vaccinate cui sarebbero seguiti 34 decessi, e 17.642 casi di variante Delta tra persone vaccinate cui sarebbero seguiti 37 decessi. Dunque il tasso di letalità apparente (o case fatality rate), insomma il rapporto tra decessi e casi ufficiali, corrisponderebbe allo 0,10% per le persone non vaccinate, mentre raddoppierebbe a 0,21% tra le persone vaccinate (sic!). Come ha però ricordato Matteo Villa dell’ISPI (Istituto italiano per di politica internazionale), questi dati vanno decifrati bene. Ricordiamo, anzitutto, che una persona trentenne contagiata ha circa una probabilità su mille di morire, mentre una ottantenne ne ha circa una su dieci. Bene, nel periodo di raccolta dei dati richiamati in precedenza, come si può facilmente mostrare numeri alla mano, l’88% delle persone non vaccinate aveva meno di 35 anni, mentre solo il 16% delle persone vaccinate era un under-35: i non vaccinati, insomma, erano molto più giovani dei vaccinati. In realtà, tenendo conto dei diversi tassi di letalità per fascia d’età, il tasso di letalità dei vaccinati che osserviamo è dell’82% inferiore rispetto a quello potenziale. Nel caso inglese, insomma, su 17.642 persone vaccinate avremmo dovuto attenderci 206 decessi, e invece ne registriamo solo 37. I vaccini hanno salvato 169 vite su 206 (per approfondire vedi https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/datavirus-vaccini-i-dati-che-non-sappiamo-leggere-30980?fbclid=IwAR2lGTZUxc-Gt3KsGxlFLyN1XibCkyC9f8QOgin_SqiiqTv0V1eA-Safguk).
il vaccinato che si contagia ha un rischio bassissimo di sviluppare una forma grave della malattia: dopo i 35 giorni si osserva una stabilizzazione della riduzione che è circa dell’80% per il rischio di diagnosi, del 90% per il rischio di ricovero e del 95% per il rischio di decesso.
È il caso di ricordare che il nostro intelletto può non raramente farci incorrere in gravi errori, se lo si conduce con troppa foga verso il giudizio. A tal proposito, è illuminante una chiarificazione del nostro Istituto Superiore di Sanità dello scorso 20 luglio. Nella parte del sito dedicata al covid, l’ISS scrive che «se le vaccinazioni nella popolazione raggiungono alti livelli di copertura si verifica l’effetto paradosso per cui il numero assoluto di infezioni, ospedalizzazioni e decessi può essere simile tra i vaccinati rispetto ai non vaccinati». In questi casi, continua l’ISS, l’incidenza (intesa come il rapporto tra il numero dei casi e la popolazione), è circa dieci volte più bassa nei vaccinati rispetto ai non vaccinati. Quindi l’efficacia del vaccino è ribadita. Com’è possibile? In realtà, si tratta di un effetto relativamente semplice da capire. Anzitutto, ripetiamolo per la milionesima volta, la vaccinazione anti-COVID-19, come accade per tutte le vaccinazioni, non protegge il 100% degli individui vaccinati. «Attualmente sappiamo che la vaccinazione anti-COVID-19, se si effettua il ciclo vaccinale completo, protegge all’88% dall’infezione, al 94% dal ricovero in ospedale, al 97% dal ricovero in terapia intensiva e al 96% da un esito fatale della malattia» (sempre l’ISS). Ora, più aumenta la copertura vaccinale, più si abbassa il numero totale dei casi proprio grazie all’efficacia della vaccinazione: questo comporta che i pochi casi tra i vaccinati possano apparire proporzionalmente numerosi. «In gruppi di popolazione con una copertura vaccinale altissima – chiarisce l’ISS – la maggior parte dei casi segnalati si potrebbe così verificare in soggetti vaccinati, solo perché la numerosità della popolazione dei vaccinati è molto più elevata di quella dei soggetti non vaccinati». Questo è un paradosso, atteso e ben conosciuto, che bisogna saper riconoscere per evitare preoccupazioni e perdita di fiducia nella vaccinazione. Inoltre, non dimentichiamo un punto decisivo: ogni sistema di sorveglianza rende noti i nuovi casi di contagio, ma non ci dice nulla su quelli evitati grazie alla vaccinazione, e questo può contribuire a falsare la prospettiva.
Sul caso israeliano, poi, citato anch’esso da Agamben-Cacciari, nello studio cui si fa riferimento, il vaccino risulterebbe efficace ben oltre il 90% contro le forme gravi della malattia e le ospedalizzazioni derivanti dalla variante Delta, e comunque, rispetto al dato relativo alla capacità di proteggere dal contagio, il medesimo studio potrebbe essere viziato dalla scelta del campione per la ricerca. Sono considerazioni queste che, tra gli altri, ha avanzato il professor Doron Gazit, dell’Università ebraica di Gerusalemme, riportate dal prestigioso quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth (il testo https://www.ynetnews.com/health_science/article/ByOgs211Tu). In altri termini, anche questa affermazione si basa su un dati ancora nient’affatto acquisiti pacificamente.
Forse sorprenderò il lettore, ma non ho riportato queste fonti per smentire le affermazioni di Agamben-Cacciari, per opporre ciò che io ritengo essere vero a ciò che credo essere falso: il punto, almeno qui, non è questo. Il problema, come ho detto in precedenza, è tutto nel metodo. È scorretto pubblicare un testo che addirittura equipara alcune scelte di politica sanitaria del nostro governo (e non solo del nostro) ai dispositivi di sorveglianza dei regimi dittatoriali, su basi così friabili, a meno che i dati – che mi guardo bene dal sacralizzare! – non diventino un’appendice della propria imago mundi, e tanto peggio per loro se non s’incastrano al meglio nella mia idea. È scorretto citare alcune voci del vasto dibattito scientifico, ritagliate e isolate dal contesto, per annetterle al proprio arsenale argomentativo, squalificando poi, in altri luoghi, la comunità scientifica, quando le sue parole non risultano in linea con la propria visione, a meno che questa “discriminazione” tra le voci non sia convenientemente spiegata.
È scorretto citare alcune voci del vasto dibattito scientifico, ritagliate e isolate dal contesto, squalificando poi, in altri luoghi, la comunità scientifica, quando le sue parole non risultano in linea con la propria visione
Di più ancora, paragonare il green pass al passaporto interno dell’Urss, a mio avviso, danneggia la causa che i due autori pur vogliono perorare. Perché sì, esiste un pericolo, neanche tanto piccolo, che dispositivi di sicurezza sempre più invasivi e diffusi (sanitari, polizieschi, militari), possano effettivamente risucchiare spazi di libertà agli individui, i quali in nome della promessa del “rischio zero”, sentono forte la seduzione dell’autoconsegna al Potere Buono del Leviatano col camice bianco, un po’ medico un po’ ingegnere; sì, la trasformazione del rischio in un “assurdo” dell’esistenza – e invece si tratta di un fattore peculiare – potrebbe trasformarci in persone pronte a ridurre la vita a mera sopravvivenza, pur di inseguire l’illusione di un mondo perfettamente sanificato da ogni virus (e, inevitabilmente, prima o poi il virus più fastidioso finisce per essere identificato con l’Altro). A mio parere, non si può restare insensibili dinanzi a questi punti, tutti adombrati nelle righe di Agamben e Cacciari, e discuterli è un’urgenza reale: il problema è che sparare nel mucchio, scansare la sfibrante “discriminazione”, la terribile e faticosa gymnasia in cui consiste il pensare, non è un buon affare. È la goccia paziente del concetto che scava la roccia, non un furioso gavettone .
*Ringrazio Luca Lo Sapio per gli spunti
*Nel riportare i dati ho cercato di essere il più accurato possibile. La segnalazione di eventuali inesattezze è naturalmente gradita