
Da oltre cinquant’anni, pedagogisti e studiosi di varie discipline discutono sulla figura e l’opera di don Lorenzo Milani. Talora si pone in rilievo l’originalità dell’esperienza didattica di Barbiana; talaltra, invece, si riconosce la valenza profetica dell’impegno del sacerdote in difesa dell’obiezione di coscienza, che lo coinvolse un’aspra polemica con le gerarchie ecclesiastiche: in quegli anni, la Chiesa cattolica non riconosceva alcuna legittimità all’obiezione di coscienza alla leva obbligatoria. Per lo Stato, inoltre, essa costituiva un reato.

Il dibattito su don Milani si è svolto sia all’interno della cultura cattolica sia in ambito laico e laicista. Ne è emerso il profilo personale – pieno di umanissimi difetti e oltremodo – di un uomo di Chiesa impegnato senza riserve nella cura pastorale dei ceti più emarginati. Forse, la novità che si è riscontrata di recente, in occasione del centenario della nascita, è il ridestarsi di uno “strano” interesse da parte di una certa cultura nei confronti del priore di Barbiana. E non si tratta esclusivamente di una cultura di matrice laicista. Una parte di essa, anzi, si fregia di un’aura di cattolicesimo tradizionalista nel partecipare alla campagna denigratoria nei confronti di don Milani, a cui viene imputata, addirittura, la responsabilità del degrado della scuola italiana. Ad esempio, nel proprio blog, Marcello Veneziani ha definito la scuola di Barbiana “una nociva utopia”. Anche le più nobili iniziative del suo promotore, per una nefasta eterogenesi dei fini, avrebbero avuto conseguenze disastrose per la nostra scuola. Non è un azzardo ritenere che i suddetti denigratori (che, per brevità, qui denominerò i Suddetti) abbiano ora affilato le loro armi dialettiche, consapevoli di esprimersi in consonanza con il progetto educativo del governo Meloni.
Si rassicurino, i Suddetti: l’influsso del “modello Barbiana” sulla scuola italiana non è stato poi così importante e distruttivo: quel modello è un unicum intraducibile in altri contesti. Non c’è stata né ci sarà mai un’altra Barbiana, né un altro don Milani. E non ci sarà più quel manipolo di ragazzi, per i quali frequentare una scuola a tempo pieno era comunque meglio che pulire la stalla di famiglia. E’ improponibile una scuola che, a somiglianza di quella, non preveda congrui intervalli ricreativi né vacanze; una scuola in cui un solo docente possa insegnare tutte le materie a coetanei degli allievi di Barbiana (soltanto negli ultimi anni il Priore fu coadiuvato dalla maestra Adele Corradi).

Nel complesso, la scuola italiana – pur tenuta in non cale dalla politica della Seconda Repubblica – è forse meno degradata da quanto potrebbe apparire dalle classifiche redatte dalle agenzie di ranking. Tra l’altro, all’estero si riconosce che la nostra scuola elementare non è tra le peggiori all’interno dell’Unione Europea. È legittimo ritenere che, sulla scuola italiana, più che la pedagogia di don Milani, abbiano esercitato un influsso significativo modelli educativi di ben differente matrice. Innanzitutto, va menzionata l’onnipervasività, tale da fare breccia anche da noi, del sistema educativo anglosassone, improntato al pragmatismo e all’attivismo pedagogico di John Dewey. Si tratta di un sistema finalizzato soprattutto all’inserimento dello stesso nella società e nel mondo del lavoro. Pertanto, al suo interno le materie scientifiche e tecniche sono ritenute più importanti delle discipline umanistiche. Non si può dire che ciò avvenga (ancora, almeno), in Italia. Tuttavia, anche da noi l’insegnamento di tali discipline rivela degli elementi di criticità. Così, ad una elevata percentuale dei nostri giovani manca la competenza linguistica che li abiliti alla comprensione di un testo di media difficoltà, come pure di un articolo di giornale. Soltanto in virtù di uno spericolato volteggio dialettico si potrebbe imputare tale fenomeno alla scuola di Barbiana, ove a lezione gli studenti leggevano e commentavano i quotidiani. E da adulti, intervistati in varie occasioni, essi hanno dimostrato una capacità argomentativa e una proprietà di linguaggio senz’altro apprezzabili.

Si è accennato all’atteggiamento della politica della Seconda Repubblica nei confronti della scuola. Al riguardo, più che di disinteresse, si puo’ parlare di un intento demolitivo da parte di una politica permeata di berlusconismo. L’antistatalismo sbandierato dai politici nell’ultimo trentennio si è tradotto in un progressivo indebolimento della scuola pubblica e del sistema sanitario nazionale, a vantaggio delle scuole di élite, dei diplomifici privati e delle assicurazioni sanitarie. E non si può dire, d’altronde, che i governi di sinistra abbiano fatto di meglio. Sia la destra che la sinistra hanno introdotto una logica aziendalistica nel mondo della scuola (si pensi, ad esempio, alla riforma Berlinguer). I presidi sono stati soppiantati dai “dirigenti scolastici”, le uniche figure professionali che, all’interno della nostra scuola, siano retribuite in maniera adeguata alle loro responsabilità, mentre i docenti godono di una stima sociale commisurata ai loro modesti stipendi. Forse, tale processo, se verrà ancora favorito dalla politica, potrà condurre a una scuola non molto dissimile dal modello vigente negli Stati Uniti, ove la scuola pubblica è, per lo più, di modesta qualità. Non si puo’ individuare in tale prospettiva il compimento degli auspici di don Milani.
La nostra scuola resta lontana da quella propugnata dal sacerdote toscano, fautore di una istruzione accessibile a tutti, a partire dai poveri. Questo prete irriverente aveva compiuto senza riserve l’”opzione preferenziale per i poveri” che la Chiesa cattolica avrebbe formulato alla fine degli anni Sessanta, poco dopo la sua morte.

Quella opzione – troppo spesso disattesa, ancora oggi, dalla Chiesa – don Milani l’aveva abbracciata, prima nelle “esperienze pastorali” nelle periferie fiorentine e in seguito nella scuola di Barbiana. Essa lo aveva reso “non gradito” ai vertici della diocesi fiorentina, che lo avevano confinato nella collina toscana. Così andava il mondo (e parte della Chiesa) nella sesta decade del secolo ventesimo.

Tra l’altro, i Suddetti rimproverano al sacerdote toscano di avere propugnato un insegnamento rozzo, semplificato, che non premia il merito e trascura peraltro le discipline umanistiche. Se con l’aggettivo “semplificato” si intende “accessibile ai poveri”, si può legittimamente ritenere che don Milani “semplificasse” i contenuti proposti a lezione. Il suo “spiegare” era volto a far sì che i ragazzi comprendessero il significato profondo delle parole, la cui ignoranza aveva permesso, sin da tempi immemori, ai potenti “istruiti” di aver buon gioco nell’ingannare i poveri. Li aveva amati più di Dio, quei ragazzi, e ne chiese perdono al Signore prima di morire. Inoltre, è implausibile ritenere che il Priore promuovesse un insegnamento “rozzo”. Proveniva da una famiglia molto colta; il nonno, studioso di filologia, era in grado di leggere scritti in svariate lingue antiche. Della famiglia, don Lorenzo aveva senz’altro rinnegato lo spirito elitario, ma non quel culto per la parola in cui era cresciuto.
Una critica legittima che, comunque, si può muovere alla “pedagogia di Barbiana” emerge dalle conseguenze delle discrasie – quanto ai contenuti e, ancor più, al metodo di insegnamento – tra ciò che i ragazzi imparavano in quella canonica e i programmi svolti dai loro coetanei nelle scuole statali. In queste ultime, quei ragazzi dovevano sostenere, da esterni, gli esami finali. Non è difficile comprendere perché venissero bocciati. In un certo senso, il loro maestro li mandava allo sbaraglio.

In effetti, all’epoca, il docente italiano (si pensi alla professoressa cui era indirizzata la celebre Lettera) era il funzionario di un sistema scolastico che, prevedendo la possibilità di bocciare anche nelle classi dell’obbligo, era lontano anni luce da quello che, ai nostri giorni, promuove tutti (o quasi), anche alle secondarie superiori. Quando si imputano a don Milani le colpe di una scuola superiore prodiga nelle promozioni e di una università che “livella verso il basso”, si assimila il pensiero del Priore a una certa subcultura di sinistra degli anni Settanta, che propugnava il “diciotto politico” all’università. Ma non si possono porre sullo stesso piano una scuola dell’obbligo che “non selezioni” bensì aiuti a crescere e la rivendicazione di una università che promuova alla cieca. È inimmaginabile una buona università che non sia “selettiva” e non riconosca l’eccellenza, negli studenti come nei docenti.
In conclusione, è impossibile saturam non scribere sulla critica rivolta a don Milani dai Suddetti, che riscontrano le più improbabili e funeste analogie tra l’esperienza di Barbiana e la scuola italiana odierna. In realtà, la prima era una scuola che esigeva molto, quanto a sacrifici e impegno, al docente e agli allievi: I care ne era il motto. Oggi essa è improponibile, come si è detto; giova comunque cercare di trasporre nelle attuali esperienze didattiche, in modi tutti da inventare, qualcosa di quel sacrificio e di quell’impegno. La scuola odierna, al contrario, chiede ben poco agli studenti e addossa ai docenti una pletora di adempimenti burocratici che sottraggono loro le energie e il tempo che essi potrebbero dedicare proficuamente a ciò che, nell’insegnamento, è essenziale.
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Viviamo tempi bui per poter apprezzare l’opera di questo grandissimo sacerdote,