Dialoghi

Come la Tanzania ha “sconfitto” il Coronavirus. Intervista a Giacomo Tasselli.

Scritto da Damiano Bondi

Prima di tutto, guardate questo video, girato lo scorso 24 maggio 2020 a Dar Es Salaam, Tanzania:

Può sembrare una qualunque festa di popolo, a cui siamo poco abituati di questi tempi, ma che in altri tempi sarebbe stata normalissima. E invece c’è qualcosa di più. Provate ad ascoltare quello che cantano in coro le persone che ballano. Se fate attenzione, sentirete “CORONA! CORONA!”. Esatto. Queste persone stanno festeggiando l’annuncio della sconfitta del Coronavirus nel loro paese. Il CORONAFESTIVAL.

Cerchiamo di capirci qualcosa di più insieme a chi mi ha segnalato il video: Giacomo Tasselli, il quale si trovava appunto in Tanzania quando è scoppiata la pandemia.

  1. Giacomo, cosa ci facevi in Tanzania? E quando ci sei stato?

Sono stato in Tanzania per 5 mesi circa, da dicembre 2019 a maggio 2020; sono partito ovviamente inconsapevole di ciò che stava per accadere, e mi sono ritrovato quindi a vivere l’emergenza Coronavirus in un contesto totalmente diverso dall’Italia. Sono partito insieme a mia moglie e tramite un’organizzazione di cooperazione internazionale chiamata “Doctors with Africa CUAMM”; mia moglie ha lavorato come medico in un ospedale locale, mentre io mi sono dedicato a varie attività di volontariato benefico e assistenza. 

2. Secondo la tua esperienza, come è stata affrontata l’emergenza Coronavirus in Tanzania?

Beh, l’emergenza Coronavirus in Tanzania è stata affrontata con la leggerezza e il fatalismo con cui spesso in Africa si fronteggiano le situazioni più drammatiche. Ma anche con un pizzico di bizzarria tutta tanzana. All’inizio c’è stato il tentativo di replicare goffamente i provvedimenti del mondo occidentale, ma con il passare delle settimane si è iniziato a lasciare da parte gli strumenti figli di quel mondo e a risolvere il problema in un altro modo, virando verso rimedi tradizionali o spirituali. Ovviamente tutta la vicenda, per noi, ha avuto del tragicomico, e vorrei provare a raccontarla con ordine. Chiaramente il mio è il punto di vista di un occidentale che va in un paese del terzo mondo e pensa di sapere come le cose vadano fatte e affrontate, cioè in maniera scientifica ed efficiente.

Dunque. Verso metà marzo seguivamo increduli e con apprensione le notizie che ci giungevano dall’Italia riguardo i primi giorni di lockdown; si iniziavano a registrare timidamente alcuni casi anche in Africa, finché il 16 marzo si annuncia ciò che temevamo: il primo caso di tampone positivo in Tanzania. Dobbiamo considerare che all’inizio dell’emergenza, in tutto il continente africano, solo 3 laboratori erano in grado di effettuare test per il Covid-19: uno al Cairo in Egitto, uno in Sud Africa e uno in Senegal. Per cui inizialmente si stimava in due settimane il tempo per ricevere l’esito di un tampone. Nell’ospedale di fronte a casa nostra, dove operava mia moglie, ma anche negli ospedali vicini, non c’era nulla di cui eventualmente ci sarebbe stato bisogno per affrontare l’emergenza che si stava sviluppando in Europa e in Asia: non c’erano mascherine, non c’erano guanti, non c’erano respiratori, e terapie intensive degne di questo nome si trovavano solo a Dar es Salaam o a Dodoma (le due metropoli della Tanzania). Oltre a ciò nei paesi africani limitrofi, dove si avevano più casi, si stava verificando nei confronti dei bianchi ciò che inizialmente si era verificato anche in Italia nei confronti dei cinesi: l’additamento degli untori. In Etiopia si sono verificati episodi di seria violenza verbale e la nostra organizzazione ha deciso di far rientrare immediatamente gli italiani presenti in loco. Capite quindi la nostra preoccupazione nel momento in cui si sono iniziati a registrare casi anche dove eravamo noi. Per quest’ultimo aspetto però, ci siamo presto ricreduti, perché il popolo tanzano è uno dei più accoglienti, gioviali e allegri del mondo: il massimo che ci è capitato è stato essere accolti al grido scherzoso di “corona, corona” e vederci porgere il gomito invece della mano. 

Lo stesso giorno in cui si è reso pubblico il primo tampone positivo, il primo provvedimento del governo, immediato, è stata la chiusura delle scuole. Questa è una misura che ci è sembrata molto discutibile, visto che in Tanzania le scuole sono perlopiù organizzate come collegi dove i ragazzi vivono e studiano, e sono quindi luoghi isolati e potenzialmente proteggibili dal virus; parliamo di un paese dove l’età media è di 17 anni e il 54% della popolazione ha meno di 19 anni, quindi immaginate un’orda di bambini e ragazzi che si riversa per strada e va ad affollare le case spesso povere delle proprie famiglie, dove l’idea di isolamento e distanziamento sociale non è in alcun modo applicabile. Sempre sull’onda dei provvedimenti occidentali, si sconsigliavano gli assembramenti e si obbligava a lavarsi le mani prima di entrare in qualsiasi luogo. Ecco, riguardo l’igiene delle mani abbiamo visto e provato di tutto: dal sapone liquido usato a mo’ di gel igienizzante (con la differenza che il sapone non evapora, ma rimane in mano), a persone incaricate di versarti sulle mani, con un bicchiere, dell’acqua presa dallo stesso secchio in cui poi ricadeva e da cui nuovamente si attingeva per lavare le mani della persona seguente. Questo mi è capitato di vederlo fuori dalla chiesa, prima di entrare a messa. A proposito delle chiese bisogna fare un discorso a parte, perché le chiese e i luoghi di culto di ogni religione sono state sempre esenti dal divieto di assembramento: a detta del presidente della Tanzania il Coronavirus è stato creato da Satana, e per questo in nessun modo autorizzato ad entrare in chiesa.

Fedeli durante la Domenica delle Palme alla Full Gospel Bible Fellowship Church di Dar es Salaam, Tanzania, 5 Aprile 2020. (Photo by Ericky BONIPHACE / AFP)

3. Ok, ma spiegaci meglio il video. Visto da chi non ci è mai stato, come me, risulta davvero incredibile. Cosa è successo?

È successo che a un certo punto la Tanzania ha dichiarato sconfitto il Coronavirus: nel video si vedono i festeggiamenti. Ma, ancora una volta, procediamo con ordine. 

Verso la fine di marzo l’OMS ha dotato la Tanzania delle attrezzature necessarie per analizzare i tamponi a Dar es Salaam, e i numeri hanno iniziato crescere, con piccole ma brusche impennate che hanno portato a circa 400/500 casi totali e meno di 20 morti in tutto il paese alla fine di aprile. In Tanzania non c’è libertà di informazione, per cui non sappiamo quanti siano stati in realtà i tamponi analizzati, né se il numero di positivi e morti corrisponda a realtà. Ad esempio, se all’ospedale dove lavorava mia moglie si presentava un paziente con sintomi, prima di sottoporlo al test era necessario inoltrare una richiesta al governo che ne avrebbe arbitrariamente valutato l’utilità o meno; solo in caso affermativo arrivava il tampone, e dopo averlo fatto si rimandava al governo, il quale analizzava il risultato e decideva se rivelare o no il risultato. Noi stavamo in una zona rurale nel centro-sud della Tanzania, vicino alla piccola città di Iringa, e abbiamo avuto modo di vedere in prima persona solo pochi casi sospetti, ma ci giungevano voci dalle città più grandi riguardo numerosi casi di morti attribuibili a Covid-19 che venivano occultate, e addirittura di studenti di medicina arrestati perché diffondevano notizie riguardo tamponi positivi. Non posso però confermare la verità di queste voci. 

Il presidente della Tanzania, nonché protagonista della gestione dell’emergenza, si chiama John Pombe Magufuli ed è stato rieletto democraticamente alla fine di ottobre, meno di un mese fa, con l’84% dei voti. Durante la settimana delle votazioni è stato sospeso internet e l’uso dei social network per non interferire con le operazioni. È amatissimo da tutta la popolazione, che lo stima ed esegue devotamente tutto ciò che lui dice. A marzo la sua foto del “saluto” con il piede invece della mano è diventata virale e ha fatto il giro del mondo, vero e proprio emblema della leggerezza tanzana con cui è stata affrontata l’emergenza.

La chiusura delle scuole, l’obbligo di lavarsi le mani e l’invito ad evitare assembramenti sono stati di fatto gli unici provvedimenti di carattere più occidentale adottati per arginare la diffusione del contagio. Nel momento in cui, poi, i casi hanno cominciato a crescere – e la sparuta opposizione al partito di Magufuli ha iniziato ad accusarlo di affrontare l’epidemia con eccessivo laissez faire e ad auspicare restrizioni più severe – la risposta del presidente ha avuto dell’incredibile: per sua volontà sono stati effettuati dei tamponi su una capra, una pecora e una pianta di papaya e sono stati mandati in laboratorio sotto nome di falsi pazienti con sintomi. I 3 tamponi sono risultati positivi e in un discorso alla nazione, trasmesso dalla Tanzania Broadcasting Corporation, il presidente ha affermato l’inaffidabilità del laboratorio e dei kit di tamponi provenienti dall’estero, con conseguente chiusura del laboratorio e licenziamento del suo direttore. Ha parlato anche di un probabile sabotaggio e di un numero di guariti superiore a quello diffuso. L’OMS ha prontamente risposto all’accusa dichiarando che si trattava dei test standard, in uso in tutto il mondo.

Il presidente John Pombe Magufuli.

Il presidente Magufuli aveva già dichiarato di apprezzare l’utilità di rimedi tradizionali come suffumigi con particolari erbe curative e aveva promesso per l’inizio di maggio l’invio di un aereo in Madagascar per prelevare alcune casse di una miracolosa bevanda a base di artemisia, che secondo gli amici malgasci prometteva una pronta guarigione dai sintomi da Covid-19. 

Nei giorni precedenti aveva anche manifestato la sua fede in Dio, anziché nella scienza, per combattere il virus e aveva addirittura indetto, attraverso un tweet, 3 giorni di preghiera a religioni unificate per chiedere a Dio l’intercessione contro il Coronavirus, dal 17 al 19 aprile, invitando i tanzani ad assembrarsi nei luoghi di culto dove comunque il virus non sarebbe potuto entrare per le ragioni già dette. 

Poco dopo la metà di maggio, in un nuovo sorprendente discorso alla nazione, il presidente Magufuli ha dichiarato che Dio ha ascoltato e accolto le preghiere dei tanzani, è intervenuto e ha liberato la Tanzania dal Coronavirus. Magufuli ha poi decretato il venerdì 24 maggio come giorno di festa per la fine del Coronavirus, ha invitato tutti i tanzani a togliere le mascherine, farsi un vestito nuovo e a festeggiare. Il video che avete visto all’inizio riprende appunto immagini dei festeggiamenti del 24 maggio nei pressi di Dar es Salaam. 

Di fatto, oggi, in Tanzania, nel momento in cui qui viviamo una seconda nuova ondata, il Coronavirus è un ricordo annebbiato che risale a prima dell’estate.

4. Siamo davvero agli antipodi rispetto al nostro contesto occidentale. Altro che modello Svezia! Tu che hai vissuto l’emergenza COVID in entrambi i contesti, prima là in Tanzania e adesso qua in Italia, che idea ti sei fatto di tutta questa vicenda? Al di là degli aspetti folkloristici e di quelli francamente indigeribili da parte di chi vive nelle laiche democrazie occidentali, pensi che ci sia qualcosa da imparare dal modo in cui le persone in Tanzania affrontano la malattia? 

In generale, a seguito di tutta l’esperienza in Tanzania, posso dire che c’è molto da imparare dal popolo tanzano. Soprattutto per quel che riguarda la leggerezza e il sorriso con cui affrontano ogni difficoltà: è raro trovare qualcuno che si lamenti di qualcosa e tutti hanno una sincera e stupefacente capacità di gioire delle piccole cose. Si tratta di un aspetto che noi abbiamo perso da tempo o facciamo fatica a conservare. Tuttavia la vicenda legata al Coronavirus ha avuto un carattere troppo particolare ed è legata a tanti fattori ambientali del continente africano, per cui è veramente difficoltoso istituire un confronto tra l’emergenza qui e l’emergenza lì. Anche perché lì, in un mondo in cui non esiste la fretta, l’idea stessa di emergenza come qualcosa da risolvere con rapidità è un concetto importato dal nostro emisfero. Inoltre, il popolo tanzano ancora oggi vive a stretto contatto con le 3 grandi endemie africane ovvero AIDS, tubercolosi e malaria, per cui il Coronavirus ha solo superficialmente scalfito un paese cronicamente colpito da patologie ampiamente più drammatiche. Quel che c’è da imparare, forse, è che non sempre tutto è come sembra, e che i nostri strumenti evoluti e sviluppati non sono applicabili in ogni contesto. È anche difficile fare una valutazione seria dell’impatto che il virus ha avuto in Tanzania per mancanza di dati, per l’età media della popolazione molto bassa, per le varie contingenze ambientali. Non saprei giudicare nemmeno, ovviamente, se la Tanzania ha davvero sconfitto il virus grazie alla preghiera. Posso solo constatare, con non poco stupore, che i fatti per adesso hanno dato ragione al presidente Magufuli. 

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Damiano Bondi

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