Destino ha voluto che in queste settimane uscissero due film che, presi assieme, possono rispecchiare, con buona approssimazione, il percorso di una certa parte della nostra cultura degli ultimi 20 o 30 anni. Sto parlando di Matrix Resurrection e Don’t look up. Il primo è il quarto capitolo della storica saga Wachowski (il primo film è del 1999). L’idea di partenza è nota a tutti: l’Intelligenza Artificiale, resasi indipendente dall’uomo e a questi ostile, muove guerra alla razza umana e alla fine riesce a schiavizzarla, imprigionandola in una “neurosimulazione interattiva”, chiamata appunto Matrix, grazie alla quale gli uomini sognano di star vivendo la loro vita normale, quando in realtà giacciono a miliardi in stato d’incoscienza, in un mondo ridotto a un ammasso di macerie, mentre l’energia del loro organismo è utilizzata dalle macchine per sopravvivere. Il film si basa su un’ipotesi neuroscientifica assai seducente, vale a dire l’idea che la nostra coscienza – l’esperienza in prima persona che abbiamo del mondo – sia nient’altro che il prodotto dei nostri neuroni. «Che vuol dire reale? – chiede Morpheus a Neo in un dialogo del film ̶ Dammi una definizione di reale. Se ti riferisci a quello che percepiamo, a quello che possiamo odorare, toccare e vedere, quel reale sono semplici segnali elettrici interpretati dal cervello». Per Morpheus, insomma, la realtà sarebbe un’allucinazione vera. Quest’idea rispecchia una certa posizione sulla natura della nostra coscienza, che nell’ambito della filosofia della mente può essere associata alle teorie “internaliste”. Secondo l’internalismo – schematizzo un po’ il discorso, mi scuso con gli esperti – la coscienza è ciò che accade “dentro la testa”.
Per Morpheus, insomma, la realtà sarebbe un’allucinazione vera
Il programma di ricerca della scienza cognitiva classica (SCC), infatti, sviluppatasi tra gli anni ‘50 e ’80 del Novecento, era fondato sulla convinzione che fosse possibile studiare i processi cognitivi considerandoli processi di elaborazione operati su rappresentazioni, lasciandosi guidare dalla metafora mente-computer. Insomma, il cervello, per la SCC, funzionerebbe in modo simile a un computer: l’esterno comunica con l’interno attraverso gli input sensoriali che vengono poi restituiti all’esterno, dopo un certo tempo necessario al nostro apparato cognitivo per processare le informazioni ricevute, sotto forma di risposte comportamentali. Uno degli studiosi più importanti in quest’ambito, Howard Gardner, ha potuto affermare che «il lavoro con i computer, e la convinzione della loro pertinenza come modello del pensiero umano, sono onnipresenti nella scienza cognitiva». Questo modello, chiamato internalista, negli ultimi anni è stato sempre più criticato. Come mai? In estrema sintesi: dimentica il mondo. Noi non siamo solo il nostro cervello: abbiamo un corpo, un corpo che si muove e interagisce con l’ambiente in cui è inserito a partire da scopi vitali. Per comprendere qualcosa del mistero della coscienza, allora, non basta studiare quello che accade “dentro la testa”, ma bisogna considerare l’interazione organismo-mondo. Ecco perché la nuova scienza cognitiva (NSC) parla di esternalismo. Il paragone computer-cervello viene respinto sempre più spesso, in favore di un orientamento di ricerca anche definito 4E cognitive science. La nostra esperienza cosciente, infatti, va studiata in quanto embodied, vale a dire incarnata, poiché i processi cognitivi sono implementati sullo stesso substrato neurale responsabile della percezione e dell’azione. Enacted, in quanto i processi cognitivi sono il portato dell’interazione dinamica tra un soggetto agente e l’ambiente. Embedded, poiché esperiamo la realtà sempre situati in un ambiente naturale e socio-culturale. Extended, poiché i processi cognitivi non si consumano “dentro la testa”, in quanto, in una certa misura, scaricabili su supporti tecnologici esterni (risolvere un’operazione algebrica a mente anziché con carta e penna, non è proprio la stessa cosa).
Noi non siamo solo il nostro cervello: abbiamo un corpo, un corpo che si muove e interagisce con l’ambiente
Cosa c’entra tutto ciò con Matrix? C’entra nella misura in cui l’ipotesi di partenza della quadrilogia si basava su un’idea di coscienza inside-out (“la coscienza è ciò che accade dentro la scatola cranica”) oggi difficile da sostenere in quei termini. Uno dei filosofi della mente contemporanei più famosi, infatti, lo statunitense Alva Noë, in un libro imperdibile (scusate la recensione fulminea), dal titolo inequivocabile (Perché non siamo il nostro cervello, 2010) ha potuto affermare che «L’idea secondo la quale noi saremmo il nostro cervello non è qualcosa che gli scienziati hanno imparato; si tratta, piuttosto, di un pregiudizio che gli scienziati si portano da casa fin dentro i laboratori. Passiamo la nostra vita con un corpo, all’interno di un ambiente insieme ad altri. Non siamo semplici recipienti in balìa di influenze esterne; siamo dinamicamente accoppiati con il mondo, non siamo separati da esso». Ora, se nella distopia di Matrix “svegliarsi” vuol dire rendersi conto del carattere fittizio della realtà che abbiamo sotto il nostro naso, in Don’t look up il percorso da compiere è per certi versi opposto: qui sono proprio i fatti immediati che vanno recuperati! Là fuori c’è una enorme cometa che viaggia verso la Terra e minaccia di distruggerla. Basterebbe alzare lo sguardo e vedere. Eppure un dedalo di interessi tanto egoistici quanto demenziali, che intrecciano economia, politica e comunicazione, in una narcisistica proliferazione cancerosa di voci, informazioni e contro informazioni, conducono un’umanità isterica, piagnucolosa e alquanto disperata, alla catastrofe finale (scusate lo spoiler). Se in Matrix l’umanità era intrappolata dentro una realtà virtuale fabbricata da altri, in Don’t look up l’uomo stesso è il genio maligno che si auto reclude in una prigione in cui le più elementari datità sensoriali – una enorme cometa ̶ diventano invisibili. Se l’uomo in Matrix non doveva fidarsi dei propri sensi, in Don’t look up la tragedia è invece che le persone hanno letteralmente perso i sensi, hanno cioè perduto il mondo, l’insieme dei fatti.
Se l’uomo in Matrix non doveva fidarsi dei propri sensi, in Don’t look up la tragedia è invece data dal fatto che le persone hanno letteralmente perso i sensi
Come si vede, tra i due film c’è stato un passaggio, potremmo dire, dall’internalismo all’esternalismo: prima lo sguardo era neurocentrico (il cervello come magic box che fa la realtà); ora, invece, l’attenzione cade sul rapporto tra percezione e mondo, sulla correttezza o scorrettezza di tale rapporto, e sull’inemendabilità della realtà. Matrix era sostanzialmente un film costruttivista (anche se non riesce a essere sempre coerente con tale impostazione), Don’t look up invece è realista, nel senso proprio del realismo filosofico: siamo collocati entro una realtà dotata di un certo ordine indipendente dall’intelletto. Quest’ultimo non può separarsi da contesti, narrazioni, influenze di potere, limiti del linguaggio etc. (altrimenti non sarebbe il limitato intelletto umano), purtuttavia non può rinunciare alla realtà, pena il disastro.
Cos’è successo in questi 20 anni circa? Perché questo cambio di sguardo? Anzitutto, Don’t look up risente del tema delle fake news e del problema dell’oggettività nella comunicazione giornalistica e politica: questioni che nell’anno di nascita di Matrix ovviamente esistevano già, ma non si ponevano con la stessa drammatica urgenza di oggi (non esistevano ancora i social, tanto per dire). In altri termini, nell’èra della post-verità, si fa ancora più acuta l’esigenza di ritrovare il rapporto tra la ragione, intesa come strumento conoscitivo, e le ragioni, intese come i motivi dei fenomeni
Questo discorso, però, ci porta anche oltre l’internalismo e l’esternalismo, verso una conclusione che possiamo riassumere così: il realismo è tornato di moda. Sì, perché il ‘900 è stato un secolo essenzialmente antirealista: verità, oggettività, realtà, erano tre termini alquanto marginalizzati dalla cultura mainstream fino più o meno all’inizio degli anni 2000. L’elogio delle infinite prospettive, delle illimitate interpretazioni, della “verità” scritta rigorosamente tra virgolette, socialmente costruita, e così via, avrebbe dovuto portare all’emancipazione da potenze tradizionali, metafisiche, borghesi.
Il ‘900 è stato un secolo essenzialmente antirealista: verità, oggettività, realtà, erano tre termini alquanto marginalizzati dalla cultura mainstream
Tuttavia, come ha scritto Maurizio Ferraris, «non si è vista la liberazione dai vincoli di una realtà troppo monolitica, compatta, perentoria, una moltiplicazione e decostruzione delle prospettive che sembrava riprodurre, nel mondo sociale, la moltiplicazione e la radicale liberalizzazione (si credeva negli anni Settanta del secolo scorso) dei canali televisivi. Il mondo vero certo è diventato una favola, anzi è diventato un reality, ma l’esito è stato il populismo mediatico, un sistema nel quale (purché se ne abbia il potere) si può pretendere di far credere qualsiasi cosa». Da termine quasi reazionario, “realtà” sembra oggi parola sempre più cara a ogni contropotere o controinformazione: non a caso il fact checker è l’odierno eroe lanciato contro le narrazioni dei forti del mondo. Il problema però è che i fatti empirici non esauriscono la realtà. Sì, perché, come ancora insegna Don’t look up, non basta avere occhi funzionanti per vedere e capire. La realtà si dà in un rapporto, e solo se tale rapporto è virtuoso noi vedremo quel che c’è da vedere e sapremo interpretarlo in un modo adeguato al livello della nostra dignità. Paradosso inaggirabile: le cose ci circondano, ci assediano da ogni lato, eppure dobbiamo aprirci un varco verso di esse elaborando un metodo, se no restano invisibili.
Nei grandi periodi storici di transizione (come quello che stiamo vivendo) sempre torna in auge la questione del metodo (cosa fa ad esempio Cartesio, nel suo tempo, nel bel mezzo di un epocale smottamento delle strutture tradizionali del sapere? Scrive il Discorso sul metodo). Per trovarlo, si può ripartire anche da quel che emerge nella scena in cui Randall Mindy, l’astronomo protagonista di Don’t look up, guardando la cometa che si dirige verso la Terra esclama: «È terrificante e bellissima allo stesso tempo». Non so se gli sceneggiatori siano consapevoli o no, ma queste parole racchiudono perfettamente il significato di quel thaumazein che, secondo Aristotele, sta all’inizio della filosofia e che noi traduciamo blandamente con “meraviglia”. Il termine greco, infatti, non indica una meraviglia pacioccona e tranquillizzante, ma quella sgomenta e perturbante che l’uomo prova davanti allo stupendo e pauroso spettacolo delle forze della natura. Che si tratti di una crisi economica mondiale, di un microscopico virus diffuso globalmente o di una catastrofe climatica potenziale, questi sono gli anni in cui farsi colpire dalla trascendenza del reale e trovare una nuova via di accesso alle cose, tra la meraviglia e la paura, come l’umanità ha fatto agli inizi del suo cammino e sempre ripete nei periodi di crisi delle civiltà. Credo sia questo il “risveglio” cui può richiamarci Don’t look up.