Con buona pace di Fukuyama, e con brutta guerra per noi, non c’è nessuna fine della storia, anzi un suo tragico eterno ritorno. Rimane aperta la questione se ci sia un fine, ma anche questo sembra fuori dalla portata degli uomini, e dei suoi cannoni. Prima due anni di pandemia, adesso i bombardamenti in una capitale europea: è come se la nostra generazione si fosse svegliata da una grande illusione di pace, progresso, sicurezza, stabilità, e si fosse vista sbattere in faccia tutta la precarietà degli esseri umani e delle loro costruzioni sociali.
Per uno strano gioco del fato, mentre i carri armati invadono un pezzo di Europa, ricorrono i dieci anni dall’assegnazione del Premio Nobel per la Pace all’Unione Europea. L’Ucraina formalmente non ne fa parte, ma avrebbe dovuto entrarvi nel prossimo futuro. Dopo il fallimento del processo di integrazione del 2013, l’Ucraina avrebbe dovuto far domanda ufficiale di adesione nel 2024, e dal 2019 nella sua Costituzione si afferma «l’identità europea del popolo ucraino e l’irreversibilità del corso europeo ed euro-atlantico dell’Ucraina». Parole che oggi suonano tragicomiche, e che forse già erano illusorie quando sono state scritte.
Quando nel 2012 fu assegnato il Nobel per la Pace all’Unione Europea, non mancarono polemiche anche aspre e condivisibili: l’UE era impegnata con la NATO in diversi conflitti (e lo è ancora), esportava armi (e lo fa ancora) e aveva chiuso numerosi confini all’immigrazione (ed è ancora così). Tuttavia, anche la motivazione con cui il Nobel fu assegnato aveva assolutamente senso, e risuona oggi con una forza particolare: «il ruolo di stabilità giocato dall’Unione ha aiutato a trasformare la gran parte d’Europa da un continente di guerra a un continente di pace». Molti di noi, fortunatamente, sono nati in una condizione irenica, con il grande rischio di considerare la pace una cosa scontata, quasi indipendente da noi. Ma se si guarda indietro nel tempo, dobbiamo constatare che settanta anni di pace sono il periodo più lungo dell’intera storia occidentale in cui due stati europei non si fanno guerra tra loro. Questo periodo eccezionale è iniziato dopo due guerre mondiali, per di più scaturite esattamente da conflitti interni all’Europa. Pur nei suoi evidenti limiti politici, dobbiamo riconoscere che molta parte di questo merito va ascritta all’UE.
Tutti ricorderanno l’imbarazzo con cui il presidente del Parlamento Europeo Martin Schulz, il Presidente della Commissione Europea José Manuel Barroso, e il Presidente del Consiglio Europeo Herman Van Rompuy andarono alla cerimonia, indecisi su chi dovesse ritirare il premio o tenerlo in mano. Fotografarono così, per molti, la mancanza di una leadership forte da parte della stessa UE, la debolezza dell’istituzione che pure veniva premiata.
Oggi, tuttavia, potremmo azzardare anche un’altra lettura. Davvero rilevare la macchinosità, la lentezza, la complessità delle istituzioni e dei processi europei significa destituire la fondatezza dell’attribuzione di un Nobel per la Pace? In altre parole, siamo così sicuri che per il mantenimento della pace, interna e globale, servano leadership forti, capaci di esprimere autorità? O la pace non sarà meglio garantita dalle ipoteche che le istituzioni sapranno mettere sulle possibili derive autoritarie e antidemocratiche che chi amministra il potere troppo spesso è tentato di intraprendere?
La stessa storia europea del Novecento, in effetti, sembra suggerire una risposta affermativa a quest’ultima domanda. Subito, però, se ne porrebbero altre, e ancora più drammatiche: ma nel caso venissero attaccate, queste istituzioni “virtuosamente deboli” saprebbero difendersi? E saprebbero intervenire quando ce ne fosse bisogno, contro una potenza più granitica della propria?
Insomma, quella dell’Europa fu vera pace?
Ai posteri l’ardua sentenza. O forse a noi.