Monologhi

“Dove va il tempo che passa?” Galileo risponde a Guzzanti

Scritto da Alfonso Lanzieri

Per quanto abbia cercato, non ho trovato conferme ufficiali di quest’aneddoto. Mito o storia che sia, si racconta che un giorno Albert Einstein abbia rivolto al matematico Kurt Gödel questa domanda: «Dove va il tempo che passa?». Sembra una di quelle ingenue domande che a volte fanno i bambini, se non fosse che a volte i bambini fanno domande molto difficili, quali ad esempio «Perché la cicogna mi ha portato proprio in questa famiglia?» oppure «Cosa c’era prima di Dio?», quesiti che ho ascoltato con le mie orecchie.


Quando ci troviamo all’inizio di un nuovo anno, il tema del “tempo” torna prepotentemente nei nostri discorsi e pervade il mood delle giornate. Un anno in più è passato, sono più vecchio, come ho speso il tempo che mi è stato dato, il tempo è scorso velocemente, quanto tempo mi rimane con le persone che amo, e così via. A questo punto, una coscienza ben istruita nelle questioni filosofiche e scientifiche, potrebbe far notare che la domanda attribuita ad Einstein è effettivamente ingenua, poiché, tanto per cominciare, non tiene conto della differenza tra tempo soggettivo e tempo oggettivo. Il primo è la nostra percezione del tempo, umana troppo umana, il secondo, invece, è la dimensione di cui parla la fisica. Ma anche questo tempo “oggettivo” va inteso bene.

Dobbiamo proprio anche ad Einstein, tra l’altro, una grande rivoluzione nel modo in cui pensiamo il tempo. Dalla formulazione della teoria della relatività, infatti, non parliamo più di spazio e tempo, ma di spaziotempo, e sappiamo che non c’è nessun grande orologio che batte il tempo dell’universo ovunque nella stessa maniera, ma questo dipende dal luogo e dalla velocità. Non è possibile la perfetta simultaneità tra due eventi. Il tempo, insomma, è molto diverso da come l’immaginazione umana tende a concepirlo: un’infinita retta che scorre in avanti, lungo la quale si collocherebbero i diversi accadimenti dell’universo, tutti contemporanei se posti nello stesso punto.

“Si racconta che un giorno Albert Einstein abbia rivolto al matematico Kurt Gödel questa domanda: Dove va il tempo che passa?”


D’altronde, l’intera imago mundi moderna, a poco a poco, è andata costruendosi quasi in antitesi con la nostra più elementare percezione del tempo e dello spazio. Sembra che il Sole giri attorno alla Terra, la quale a sua volta sembra il centro del cosmo, invece è il contrario: viviamo su un piccolo pianeta marginale che ruota attorno alla sua stella, assieme ad altri pianeti marginali. Sembra che le specie viventi siano stabili, invece sono un accumulo momentaneo di funzioni che si solidifica per una parentesi temporale, che a noi sembra eterna solo a causa dello sfasamento di scale temporali tra la nostra esistenza e le ere naturali. Sembra che l’Io sia saldamente al comando della nostra vita, invece dobbiamo fare i conti perlomeno con un co-protagonista chiamato inconscio. Anche l’attuale rivoluzione digitale, come ha evidenziato Luciano Floridi, aggiunge la potenza dell’IA alle precedenti trasformazioni, per delineare un quadro in cui l’uomo non è più la star dell’universo. Insomma, ci sembrano molte cose, tuttavia, per citare il titolo di un libro scritto da un famoso scienziato italiano, “la realtà non è come ci appare”.


Ogni convinzione sulla centralità dell’uomo è stata scardinata dai numeri, dalla ricerca scientifica e dall’innovazione tecnologica: sembra una sorta di sconfitta per le ambizioni (o le presunzioni) dell’umanità intera, orfana di un cosmo creato intorno a lei, come si credeva un tempo. Il tutto può essere icasticamente sintetizzato nella celebre frase di Jurij Gagarin, il quale, grazie alla matematica e alla ricerca scientifica, andò nel cosmo superando l’atmosfera terrestre e disse: «Non c’è nessun Dio quassù», cioè, potremmo dir noi, «Non siamo speciali, non siamo il centro di nulla».


A questo punto, però, possiamo far notare un piccolo dettaglio. Galileo Galilei, tra le grandi figure della rivoluzione scientifica, scriveva nella lettera a Madama Cristina di Lorena Granduchessa di Toscana: «intesi da persona ecclesiastica costituita in eminentissimo grado, l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo» (la persona cui lo scienziato fa riferimento era molto probabilmente lo storico e cardinale Cesare Baronio). Tale espressione galileiana, giustamente famosa, era utilizzata dallo scienziato per controbattere a quanti non credevano nel copernicanesimo perché, male interpretando le Scritture, le utilizzavano per trarre da esse affermazioni di carattere scientifico, mentre la Bibbia, per un credente, contiene la parola che rivela Dio e la sua volontà di salvezza per l’umanità. Dunque: la scienza indaga la realtà per conoscerne le leggi, la Bibbia serve a conoscere il senso o destino dell’esistenza. Non è lecito, da un punto di vista epistemologico, usare uno di questi due ordini di conoscenza per negare l’altro (che la Scrittura sia una forma di conoscenza l’uomo di fede lo ritiene, e qui non ci interessa discuterlo). Se ciò è vero, però, allora, a rigor di logica, così come non si può utilizzare la Bibbia per negare il copernicanesimo, è anche vero che non si può usare il copernicanesimo per negare la Bibbia.

“Intesi da persona ecclesiastica costituita in eminentissimo grado, l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo”


A questo punto, chiedo al gentile lettore un po’ di pazienza e di lasciarmi chiarire. A chi scrive, infatti, non interessa minimamente fare dell’apologetica religiosa, propugnare la verità dei testi sacri del cristianesimo ecc. Nulla di ciò qui mi importa. Quello che intendo sostenere, è che lo schema argomentativo galileiano, nella sua semplicità, è utile per problematizzare una tesi che viene spesso ripetuta come indubitabile: che l’immagine moderna del mondo, inaugurata dalla rivoluzione copernicana, significhi ipso facto la perdita della centralità dell’uomo. Dichiararlo, infatti, rappresenta un errore simmetrico a quello di chi utilizza una verità di ordine antropologico-morale per negare una verità scientifica. Con centralità dell’uomo non intendiamo un cosmo fatto per l’uomo e di cui l’uomo sarebbe il signore: l’ultima pandemia ci ha ricordato la nostra fragilità e marginalità biologica.

Tuttavia, tale evidenza può non comportare anche una marginalità ontologica: è vero, il tempo soggettivo sembra nulla rispetto ai tempi cosmici, eppure nel famoso film di Christofer Nolan, Interstellar (2014), il problema del protagonista, un papà che intraprende un viaggio ai confini dell’universo per salvare l’umanità, è che la relatività non gli faccia perdere la contemporaneità esistenziale con gli amati figli. Non è un caso che la scena finale, in cui la figlia ormai anziana incontra il padre ancora giovane, sia di forte impatto emotivo proprio per la contemporaneità spezzata (e per il legame mantenuto nonostante tutto). Di questo ordine di problemi dobbiamo pur occuparci, non cedendo alla tentazione di volerli troppo frettolosamente “naturalizzare” (cioè ridurli a impersonali funzioni naturali, senza però voler poi riconoscere alcuna normatività al piano naturale: altro problema logico).


Certamente era forse più semplice prendere sul serio i nostri problemi morali quando credevamo in un universo chiuso, piccolo e con la Terra al centro. Ed è sicuramente esilarante Corrado Guzzanti quando, nei panni di monsignor Pizarro, dopo aver elencato le sconfinate grandezze cosmiche, esclama in accento romanesco: «Ma tu pensi che uno che ha fatto tutta sta robba je ne pò fregà qualcosa se su sto sercio de periferia noi rubamo, sparamo, tradimo le mogli, se ‘ngroppamo tra de noi? Ma tu pensi veramente che ‘a morale nostra pò esse ‘a questione centrale dell’Universo?». Il comico romano, probabilmente senza saperlo, utilizza proprio una certa interpretazione del copernicanesimo per periferizzare le nostre istanze morali. Ma, di nuovo, da un punto di vista argomentativo, fino a che punto regge il discorso? Forse non a caso, quel galileiano che è stato Pascal, sentì il bisogno di affiancare l’esprit de finesse a l’esprit de geometrie; intuì la piega che il discorso avrebbe preso e provò a controbilanciare, credo con scarso successo.

“il problema del protagonista, un papà che intraprende un viaggio ai confini dell’universo per salvare l’umanità, è che la relatività non gli faccia perdere la contemporaneità esistenziale con gli amati figli”


Pascal, cioè, probabilmente capì che ci sarebbe stata la tentazione forte del “pensiero unico”, vale a dire di unificare i due ordini di verità riconducendo l’uno all’altro. Se gli inizi della rivoluzione scientifica avevano fatto emergere, per così dire, il pensiero unico religioso, teso a riportare la verità scientifica in quella morale (beninteso: di una specifica morale), gli sviluppi della rivoluzione scientifica avrebbero potuto far emergere un altro pensiero unico, un altro genere di dogmatismo insomma, un po’ più sornione e difficile da scalfire, quello “naturalistico”, fondato su un concetto di natura che non ha posto per le “ragioni dell’anima”. E in effetti, in parte, è stato così.


Ciò che è ancora da pensare, credo, è una specie di “nuovo esistenzialismo”, capace di tenere insieme, in modo radicale, la centralità per noi delle domande esistenziali, senza pensare l’esistenza come aliena dalla natura. Tra le tante voci che potremmo convocare per farci illuminare il cammino, mi piace ricordare quella dello scrittore Tommaso Landolfi, che nel 1950 pubblica il romanzo Cancroregina. Uno scrittore fallito viene invitato da uno scienziato folle, uscito da poco da un manicomio, a fare un viaggio verso la luna a bordo di un’astronave di sua creazione. Il viaggio, però, si trasforma a poco a poco in un incubo: lo scienziato Filano non dà tregua allo scrittore con le sue aggressive bizzarie, fino a che, dopo una violenta colluttazione, dovuta alla crescente tensione per i numerosi imprevisti, lo scrittore non scaraventa lo scienziato fuori dalla navicella. Tuttavia, Filano, a causa dell’attrazione esercitata nell’atmosfera dalla massa dell’abitacolo, continua, pure da morto, a seguire il viaggio.

La situazione finale è di spettrale disperazione: la navicella, ormai fuori controllo, ruota nello spazio cosmico senza mèta, lontana sia dalla Luna che dalla Terra; lo sguardo dello scrittore all’interno è costretto ad incrociare gli occhi sbarrati del cadavere schiacciato contro la navicella, che fissano l’interno. Un vivo che si specchia negli occhi di un morto, un morto che sembra fissare un vivo, alla deriva nel buio cosmico. I due sembrano altrettante facce della stessa persona, forse della stessa cultura, che vuole andare in cielo solo con le leggi della matematica, e trova l’angoscia perché ha dimenticato che sapere “come” va il cielo non è la stessa cosa che sapere “come si va” in cielo. Chiedere «dove va il tempo che passa?», allora, ha forse il suo senso, la sua dignità, perché la realtà è anche quello che ci appare.

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Alfonso Lanzieri

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