Monologhi

Fantasmi e filosofia. Una conferenza di Bergson

Scritto da Alfonso Lanzieri

Abbiamo ancora dinanzi agli occhi le zucche di Halloween, è iniziato novembre, il buio scende presto sulle nostre città, e sono arrivati pioggia e freddo. Insomma: è il periodo dell’anno propizio per parlare di fantasmi. Si tratta di un oggetto da sceneggiatura horror, da racconti notturni in compagnia, o almeno così crediamo tutti. In realtà, il termine compare in un discorso del filosofo Henri Bergson, che se n’è occupato in maniera seria. Cosa c’entrano i fantasmi con la filosofia, ovvero con la fredda e progressiva necessità di un sapere che si vuole lontano da avventure conoscitive prive di solido fondamento razionale? Fantasmi dei viventi e ricerca psichica  è il testo della conferenza tenuta nel 1913 da Bergson a Londra, in occasione della sua elezione a presidente della Società per la Ricerca Psichica (SPR) a cui aderirono scrittori, scienziati e intellettuali, tra i quali Sigmund Freud, Carl Gustav Jung, Robert Louis Stevenson, Marie Curie, William James. Insomma, un consesso prestigioso. La SPR era stata fondata nel 1882 a Londra, anche in seguito al rinnovato interesse per l’occultismo, con lo scopo di esaminare in modo scientifico fenomeni quali la telecinesi, la trasmissione del pensiero, la chiaroveggenza, la sopravvivenza dopo la morte, insomma quell’insieme di temi cui si è soliti riferirsi col nome – da tanti usato con accezione negativa – di “parapsicologia”. Questo territorio, del resto, come si sa, non era affatto sconosciuto a Bergson, per motivi biografici e di studio: sua sorella Moina aveva sposato il Conte Mathers, membro della Golden Dawn, una società segreta iniziatica dedita a pratiche teurgiche e occultismo, condividendo le attività del marito; Bergson si era interessato al caso, che allora suscitò un certo clamore in mezza Europa, della medium di origini pugliesi Eusapia Palladino (incontrata e “studiata” da tanti altri uomini di scienza di quegli anni), ed era appassionato lettore dei lavori della SPR. Chi non conoscesse bene la figura del filosofo francese, dati questi elementi, potrebbe fraintenderla da cima a fondo e ricavare l’idea di uno spirito “antiscientifico”; la conferenza prima citata, del resto, fu usata dai suoi detrattori per gettare discredito sulla figura del nostro autore a partire dalla fine degli anni ‘20 del ‘900, contribuendo a quella vulgata di  Bergson filosofo dell’irrazionalismo, che lo perseguiterà per molto tempo e che, per fortuna, oggi è in via di smantellamento. In realtà, il pensatore francese non era solo un filosofo di grande rigore metodologico ma anche studioso ben versato in matematica, fisica e scienze naturali, al punto da poter dialogare alla pari con gli specialisti a lui contemporanei  (in Durata e simultaneità si confronterà con la teoria della relatività einsteiniana, ad esempio). L’attenzione ai temi della parapsicologia, allora, si spiega con l’attitudine sempre dimostrata dal nostro autore al confronto integrale coi dati d’esperienza, alla preferenza per un empirismo radicale capace di andare a caccia del dato concreto, di ogni dato concreto, senza pregiudizi o schemi mentali preliminari. «Come spiegare il pregiudizio che si è diffuso contro le scienze psichiche, e che molti ancora conservano?» si chiede Bergson all’inizio della conferenza. «Di certo, coloro che condannano “in nome della Scienza” ricerche come le vostre sono perlopiù degli pseudo-scienziati.  La Società per la Ricerca Psichica comprende fisici, chimici, fisiologi, medici, e sono ormai numerosi gli uomini di scienza che, pur senza esserne membri, mostrano interesse per le vostre indagini. Ciononostante, succede ancora che dei veri scienziati, sempre pronti ad accogliere qualsiasi esperimento di laboratorio, per quanto piccolo possa essere, scartino per partito preso ciò che proponete, e rigettino in blocco ciò che avete fatto». L’esperienza va interrogata in tutta la sua ampiezza, dunque, proprio “in nome della Scienza”, cioè di quella pratica conoscitiva che –popperianamente – vive e si autogenera grazie alla costante consapevolezza critica verso il proprio metodo e i propri risultati. L’anima sopravvive alla morte del corpo? Esiste la telepatia? Se abbiamo dei testimoni che dicono di aver fatto esperienza di tali fenomeni, allora dobbiamo esaminare tali testimonianze e approfondirne con rigore la plausibilità, senza decidere per partito preso per la loro pseudorealtà: questo sì, sarebbe atteggiamento antiscientifico o, più semplicemente, antirazionale.  La scienza, dice il nostro autore nella conferenza, deve accogliere sperimentalmente tutto ciò che è oggetto d’esperienza e osservazione, e se le esperienze “spirituali” non sono suscettibili di misurazione matematica, allora dobbiamo sforzarci di elaborare un metodo e un criterio di studio adeguato a un oggetto che sfugge alla presa del calcolo. Ma Bergson abbandona subito il campo della controversia, per entrare in quello dell’argomentazione positiva: «Sono convinto che, in filosofia, il tempo dedicato alla confutazione sia generalmente tempo sprecato. Che cosa rimane delle tante critiche sollevate da tanti pensatori gli uni contro gli altri? Niente, o perlomeno molto poco. Ciò che conta, e che permane, è la verità positiva che abbiamo apportato». Bene, sgombrato il campo da sussiegosi scetticismi, Bergson entra in medias res: «vorrei mostrare come, dietro le varie contestazioni e derisioni, stia, invisibile e presente, una certa metafisica inconsapevole – inconsapevole e dunque inconsistente, e dunque incapace di rimodellarsi senza sosta sull’osservazione e sull’esperienza, come dovrebbe fare una filosofia degna di questo nome – e come questa metafisica sia naturale, conseguenza di una piega presa da molto tempo dallo spirito umano, cosa che spiegherebbe la sua persistenza e la sua diffusione».

«Come spiegare il pregiudizio che si è diffuso contro le scienze psichiche, e che molti ancora conservano?»

Bergson parte da un’ipotesi precisa: l’ «allucinazione veritiera», l’apparizione di un malato o un moribondo a un parente che vive lontano, o i fenomeni di telepatia, potrebbero essere generati dalla comunicazione tra coscienze che, in alcuni casi, non passa attraverso il medium dei corpi. Ma non è tutto. Si può ipotizzare, continua Bergson, che la telepatia – come l’elettricità, sia costantemente in atto, ma in una forma così debole da non essere avvertita praticamente quasi mai. Come è possibile affermare ciò? L’idea centrale dell’argomentazione bergsoniana è questa: i confini della coscienza sono più estesi di quelli del corpo. Bergson, in pratica, dichiara come contraddittori sul piano logico e scorretti sul piano fattuale, sia l’epifenomenismo che il parallelismo psico-fisico. Per il primo, la coscienza (in altri termini l’esperienza del mondo in prima persona) sarebbe la manifestazione di fenomeni fisiologici e nervosi, cioè un semplice epifenomeno di accadimenti fisici nell’organismo; per il secondo la coscienza e i movimenti cerebrali (il piano fisico e il piano psichico) sono messi sullo stesso livello, come fossero due traduzioni simultanee e differenti di una stessa lingua originale.

Henri Bergson (1859-1941)

Una coscienza che non fosse nient’altro che un duplicatum e che non fosse agente, sarebbe scomparsa già da molto tempo dall’Universo

Nella sua opera del 1896, Materia e memoria, pietra miliare del dibattito filosofico sul rapporto tra “spirito” e “materia”, Bergson si incarica di disarticolare le nozioni appena richiamate. Non c’è spazio qui per richiamare quelle argomentazioni. Mi limito perciò ad accennare solo alle riflessioni condotte dal nostro autore nella conferenza cui stiamo facendo riferimento, lasciando alla curiosità del lettore eventuali approfondimenti. Bergson cita anzitutto un principio “economico”: «la natura non dev’essersi concessa il lusso di ripetere con il linguaggio della coscienza quello che la corteccia cerebrale ha già espresso in termini di  movimento atomico o molecolare. Ogni organo superfluo si atrofizza, ogni funzione inutile scompare. Una coscienza che non fosse nient’altro che un duplicatum e che non fosse agente, sarebbe scomparsa già da molto tempo dall’Universo». In seconda battuta – ma si tratta, per così dire, del “piatto forte” della riflessione bergsoniana – il nostro chiama in causa la specifica facoltà della memoria. «Soltanto per una facoltà intellettuale ci si è creduti autorizzati dall’esperienza a parlare di localizzazione precisa nel cervello: alludo alla memoria e, più in particolare, alla memoria delle parole. […] Esaminate da vicino i fatti che, si dice, testimoniano l’esatta corrispondenza e aderenza della vita mentale alla vita cerebrale: vedrete ch’essi si riducono a fenomeni della memoria e che la localizzazione delle afasie, e soltanto essa, sembra portare alla dottrina parallelista un inizio di prova sperimentale». Ma proprio uno studio approfondito dei fatti, a giudizio di Bergson, deve farci propendere per una tesi diversa: «secondo me il cervello non conserva le rappresentazioni o le immagini del passato; immagazzina soltanto delle abitudini motorie. […] L’organo cerebrale prepara la cornice, non fornisce il ricordo. Ecco quello che insegnano le malattie della memoria delle parole». Il cervello, in altre parole, è solo un organo di recupero dei ricordi, non l’archivio che li custodisce (in Materia e memoria, prima citato, la critica alla localizzazione dei ricordi è condotta da Bergson a partire dalla confutazione della teoria sulle afasie. Le posizioni espresse in quell’opera attireranno sul filosofo francese prima molte perplessità, cui faranno seguito riconoscimenti della bontà di molte sue intuizioni). Del resto, nel cervello è possibile rinvenire solo la traccia mnestica materiale, non il ricordo in sé, che non è un dato sensibile. Il cervello, dunque, è l’organo di «attenzione alla vita»: grazie ad esso siamo inseriti pienamente nell’ambiente circostante, dal quale riceviamo continuamente movimento e al quale restituiamo movimento (input e output). L’organo cerebrale, per così dire, è un centralino telefonico (l’immagine è di Bergson) dal quale passa il traffico in entrata e quello in uscita (la risposta motrice alla sollecitazione esterna), ma resta appunto uno strumento dello spirito (coscienza). Non a caso, prosegue Bergson, «se l’attenzione alla vita si indebolisce per un istante – non parlo qui dell’attenzione volontaria, la quale è momentanea e individuale, ma di un’attenzione costante, comune a tutti, imposta dalla natura, e che si potrebbe chiamare “l’attenzione della specie” – allora lo spirito, il cui sguardo era mantenuto a forza in avanti, si distende e attraverso questo movimento si volge indietro; e vi ritrova tutta la sua storia» (qui il nostro sta pensando alle cosiddette esperienze di pre-morte). Quando la nostra corteccia cerebrale subisce un danno, allora, per Bergson, la lesione compromette l’ingranaggio materiale, e il pensiero non aderisce più alle cose in modo esatto: «un folle, colpito da un delirio di persecuzione, potrà ancora ragionare logicamente, ma ragiona di lato alla realtà, al di fuori di essa, nella stessa maniera in cui noi ragioniamo in sogno». Quel che vale per la memoria, vale anche, più in generale, per la percezione. Tutto diventa incomprensibile, a giudizio di Bergson, se i centri cerebrali sono considerati come degli organi capaci di trasformare in stati coscienti delle vibrazioni materiali e, al contrario, tutto diventa chiaro se quei centri sono considerati soltanto come strumenti incaricati di scegliere, nell’immenso campo delle nostre percezioni virtuali, quelle che dovranno attualizzarsi. Come ho anticipato, allora, per Bergson, bisogna abituarsi all’idea di una coscienza che oltrepassa il perimetro dell’organismo: volendo usare un linguaggio tradizionale, diremmo che “non è l’anima ad essere nel corpo, ma il corpo nell’anima”. «Se i fatti studiati indipendentemente da ogni sistema – scrive Bergson – ci conducono a considerare la vita mentale come qualcosa di molto più vasto della vita cerebrale […] l’unica ragione per credere a un’estinzione della coscienza dopo la morte, è che vediamo il corpo disgregarsi, e questa ragione non ha più valore se l’indipendenza della quasi totalità della coscienza rappresenta anch’essa, rispetto al corpo, un fatto che constata».

Se la coscienza è più estesa del corpo, l’ipotesi di una comunicazione tra menti che non passi attraverso lo strumento corporeo, allora, a giudizio del nostro, non è più da rigettare come assurda, ma può avere un certo grado di plausibilità; così come possiamo considerare la sopravvivenza di una certa parte della persona dopo la morte un’idea dalla forte dignità razionale. In base a quanto detto, possiamo chiederci: esistono i fantasmi? Se con tale termine, intendiamo le creature che popolano i film horror, che tornano dal regno dei morti per spaventare i vivi, beh, siamo davvero nell’ambito della fantasticheria inconsistente sul piano fattuale (anche se nient’affatto trascurabile su quello della significanza simbolico-culturale); se per “fantasmi” intendiamo invece “fantasmi dei viventi”, e cioè, per dirla in modo semplice (spero non semplicistico) un livello di realtà – cui difficilmente abbiamo acceso nell’esperienza abituale – nel quale esiste una “comunicazione” o “contatto” tra soggetti “eccentrico” rispetto alle coordinate spazio-temporali ordinarie, forse ne possiamo seriamente parlare.

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Alfonso Lanzieri

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