You can check out any time you like
But you can never leave.
- Quando California voleva dire felicità: ai tempi del Sogno.
Riascolto volentieri una delle canzoni più celebri di tutti i tempi: “Hotel California” degli Eagles. Come i classici di ogni arte, l’opera si presta a inesauribili interpretazioni, tanto che sul testo si potrebbe discutere a lungo in uno di quei “caffè filosofici” che si vanno affermando nella nostra cultura. Alla sua malía inquietante è dovuta gran parte della fama degli stessi Eagles. Invero, in un certo momento della vita, molti esseri umani entrano nel proprio Hotel California. Il “dopo” non è scontato: comunque, qui per l’ospite/cliente/prigioniero ne va della vita. L’albergo si rivelerà un carcere o una tomba per molti; per i più fortunati costituirà l’ostacolo da superare nel proprio “romanzo di formazione”, ovvero nell’insidioso percorso verso la maturità.
I critici hanno cercato di scoprire quale fosse l’albergo a cui allude il titolo della canzone. La biografia degli Eagles fornisce vari indizi. Innanzitutto, è inevitabile una tautologia: quell’hotel è la California stessa. Esso è simbolo e, in quanto tale, significante complesso. Il significato primario è dunque quello Stato, rappresentato nella metafora – o, meglio, nella metonimia: pars pro toto – costituita proprio dall’albergo. Oggetto d’interpretazione, invece, è il complesso degli altri significati: quello evidente non li svela, al più li rivela e, nel ri-velarli, ne preserva l’enigma. Qualsivoglia ermeneutica si fonda su un’esegesi, quale ricognizione del clima vitale e culturale (il Sitz im Leben) in cui sorge un “testo” nonché del significato originario dei termini ivi presenti. L’ermeneutica pone in luce la portata universale del senso di un’opera se un previo approccio esegetico ne ha individuato il senso concepito dall’autore/dagli autori.
Al tempo, la California era il simbolo di tutto ciò che, come gli Eagles, sognavano milioni di giovani nordamericani: la “felicità”. Due secoli prima, la stessa Dichiarazione d’Indipendenza aveva riconosciuto il “diritto alla ricerca della felicità” di ogni essere umano.
In California, quei ragazzoni avrebbero raggiunto fama e ricchezza. La felicità, quella no. Il Paese non era il lovely place ammannito dall’industria culturale del tempo.
Per gli autori, la canzone segnava la “fine dell’innocenza”, l’inizio della disillusione. Dal testo traspare il richiamo a un’esperienza ubiquitaria: l’inseguimento del miraggio di una felicità senza ombre, di una libertà illimitata per ritrovarsi infine prigionieri. La California si mostrava ormaì come uno dei tanti avatara degli inferni terreni. Il paradiso, gli Eagles, lo avevano cercato in ogni modo. Avevano sperimentato quello “artificiale”, offerto dalle droghe e dai superalcolici, nell’ebbrezza o nell’atarassia che essi offrivano per un momento. Quelli che erano sembrati dei cirenei dell’anima, adesso si rivelavano i più spietati usurai, dell’anima e del corpo.
2. Alla ricerca di un’esperienza liminare
Mi limito qui a una modesta riflessione su alcuni nuclei tematici del testo. Si può pensare che il “dentro” dell’hotel – il quale è, a sua volta, “dentro” il simbolo-California, come si è accennato – sia la droga, “dentro” la quale il protagonista fruisce dei molteplici vissuti suscitati dagli stupefacenti. L’hotel è simbolo di tutto ciò che introduce l’essere umano a stati mentali e condizioni vitali altrimenti inaccessibili. Se si amplia la visuale oltre l’ipotesi della droga, nel fascino dell’hotel si può scorgere il simbolo dell’attrazione suscitata nell’essere umano da qualsiasi oggetto, o attività, tale da indurre dipendenza: qui l’uomo si assoggetta a ciò che costituiva prima l’oggetto esclusivo del suo desiderio. L’oggetto diventa così “il” padrone.
Nell’incipit, il protagonista/narratore è in viaggio. Non sappiamo né da dove venga né dove vada. Qui è fin troppo banale il riferimento al trip indotto dagli allucinogeni in voga negli anni Settanta. Il viaggio si svolge nel deserto: manca assolutamente l’altro e non se ne sente il bisogno. Nulla isola dall’altro come questo viaggio. E, all’interno dell’hotel, pur scorgendo altri “prigionieri”, il narratore non li incontrerà: essi, piuttosto, sarà per lui voci lontane, al più figure generate da una psiche quanto mai solipsista.
Nel percorrere l’autostrada, il protagonista ha avvertito il profumo corroborante delle colitas. Nello slang messicano, esse sono le estremità di una pianta, forse la marijuana. La droga sollecita già l’olfatto e la vista (il buio, la luce in lontananza…). Si tratta dell’esordio di un vissuto che coinvolgerà l’intero psichismo. Allorché scorge da lontano la “luce scintillante” dell’albergo, il protagonista pensa di pernottarvi, non sospettando che vi terminerà il viaggio: uno strano torpore lo avvince e non distingue più le percezioni dai miraggi.
All’ingresso, il narratore viene colto dal dubbio più agghiacciante: l’albergo potrebbe essere il paradiso come potrebbe essere l’inferno. La sua coscienza è già, in qualche modo, scissa. Egli scaccia comunque il dubbio ed entra. Gli fa strada una donna lovely, come l’hotel stesso. In realtà, ella è, come Circe, una contraffazione dello spirito guida archetipico: con la seduzione, conduce ogni ospite verso l’interno. Tiene in pugno gli “amici” che vi dimorano già, li fa divertire, decide pure se, ballando, debbano “dimenticare” o “ricordare”. L’ingresso è agevole, vi sono sempre camere disponibili. Un coro di voci suadenti dà il benvenuto, giorno e notte. Ma forse … quelle voci sono solo nella sua mente (I thought I heard). Sono percezioni o, piuttosto, allucinazioni acustiche di una mente alterata?
Non è possibile qui comprendere il senso di ogni espressione e, anzi, il testo raggiunge l’apice dell’ambiguità. Il narratore accosta l’una all’altra immagini oniriche, ravvivando l’enigma. Sarà proprio quella circe a rivelargli la verità: nell’albergo sono tutti sono prigionieri, lei compresa. Il loro stesso “arbitrio” (our own device) li ha condotti là dentro. Nell’Hotel California si celebra una festa, ma a un certo punto gli ospiti si coalizzano per uccidere “la Bestia”. Anche tale ipostasi del Male resta per noi enigmatica. Tuttavia, quel Male è reale e non si lascia uccidere da coloro che esso stesso ha sequestrato. Il protagonista è ormai soltanto “uno dei tanti” e la strada verso l’uscita gli è preclusa. Ha ragione il portiere: si deve rassegnare all’ir-reversibile. Il percorso che conduce all’albergo era ampio, come la corsia di un’autostrada: l’Hotel California riceve tutti, ma non rende alla vita di prima. L’espressione finale è la congrua epitome della narrazione. È ancora più intrigante dei versi precedenti e di più difficile traduzione: You can check out any time you like/ But you can never leave. Il protagonista può disdire la camera quando vuole ma non potrà mai annientare la Bestia né andar via dall’albergo.
Almeno, così allora credevano gli Eagles.
Splendida e affascinante disamina di uno dei capolavori musicali più conosciuti e apprezzati di tutti i tempi. Tuttavia, secondo una originalissima oltre che personale interpretazione, ho sempre voluto immaginare che questo brano potesse raccontare la storia di un uomo e una donna che, casualmente, si conoscono durante un viaggio. Ad un certo punto, durante il tragitto, decidono di fermarsi e trascorrere la notte in un hotel. E qui sembra, per un momento, che il sogno di una storia “per sempre” possa diventare realtà. L’idillio, però, durerà solo una notte fino all’alba, quando entrambi i protagonisti, finito il viaggio, torneranno alla realtà di tutti i giorni che li separerà per sempre, facendo crollare ogni speranza di poter continuare a vivere il loro amore. Rimarrà il rimpianto, mentre il ricordo di quel breve momento di felicità tornerà ossessivamente a mostrarsi come un miraggio e sarà struggente. Una interpretazione, questa, certamente suggestiva ma anche lontana dal vero significato del brano, pur mantenendo comune il fascino del sogno che “libera” e allo stesso tempo “imprigiona” il cuore, attraverso la rappresentazione simbolica di qualcosa più vicina all’inganno che alla verità.
Affascinato dalla complessa esegesi posta in atto. Finora non mi ci ero mai soffermato tanto. Grazie mille.
È certamente assai arduo barcamenarsi nel tentativo di leggere uno dei capolavori musicali che più hanno segnato un’intera generazione. Specie se questo capolavoro è Hotel California degli Eagles, oggetto di questo articolo. Eppure, con lucidità e profonda capacità analitica, l’autore riesce nell’intento proprio constatando l’impossibilità di racchiudere il singolo entro precisi steccati concettuali. Non è possibile definire perimetri, margini o bordi che possano esaustivamente consegnarci il messaggio di Hotel California. Quest’ultimo è piuttosto lasciato al mistero, all’enigma, all’indecifrabilità di un’intricata rete di vissuti che in qualche modo riesce ad elevare il suo inno al di là delle cronometrie discografiche: i sei minuti della canzone ne sono un chiaro esempio. In un certo senso gli Eagles sono un po’ come Kafka, se mi è concessa una tale e forse arbitraria associazione. Anche lo scrittore praghese, infatti, si presta a un’inintelligibilità di fondo. Che sia per il suo inquieto ebraismo, per il rapporto con il padre o per lo sguardo ormai disilluso dinanzi a una modernità meccanizzata e senza vita, l’opera kafkiana si presenta come un coacervo di esperienze, impressioni e brandelli esistenziali irriducibili. Una tana dai molteplici accessi che accoglie il lettore nel suo mistero e forse anche nella solidale condivisione di un cammino: la ricerca di una casa in un sentiero perturbante. L’Hotel degli Eagles, mi sembra, non fa niente di diverso: un viaggio verso un’utopia rovesciata, una casa che casa non è, ma che forse, proprio per questo, nel suo ascensionale richiamo, permette a tutti di albergarvi. Grazie mille per le suggestioni, Nunzio!