Monologhi

I diritti dell’uomo e del cittadino…. robot.

Scritto da Damiano Bondi

Così, con un colpo di spugna, come operazione di marketing, senza nessun tipo di riflessione critica di tipo non voglio dire antropologico, figuriamoci filosofico, ma almeno politico… senza risonanza se non qualche trafiletto sui quotidiani… due anni fa gli universi di Dick e Asimov hanno cominciato a materializzarsi, anzi quasi ad essere superati, in Arabia Saudita.

Il 25 ottobre 2017, a Riyadh, centinaia di ricchi commercianti arabi per lo più vestiti secondo la tradizione del loro paese, che a noi potrebbero evocare un passato mitico e fiabesco da Le mille e una notte, applaudivano il discorso della loro nuova cittadina Sophia, robot umanoide della americana Hanson Robotics.

Questa notizia avrebbe dovuto, nella prospettiva di chi scrive, scatenare un dibattito accesissimo. Ma come, in un paese dove le donne hanno difficoltà a ricevere gli stessi diritti degli uomini, un robot dalle fattezze femminili ottiene la cittadinanza senza fare niente né portare il velo? Se prendiamo il termine persona dal mondo latino, dove significava appunto un individuo dotato di diritti civili, Sophia il robot sarebbe dunque “più persona” di tanti esseri umani del suo stesso paese e del mondo?  Da noi si dibatte da anni sullo ius soli, sui requisiti necessari per essere un cittadino italiano, o europeo, e in Arabia Saudita concedono la cittadinanza d’emblée a un robot, non solo senza richiedere né conoscenza della lingua, né appartenenza culturale, né sottoscrizioni di impegni, né un impiego… ma soprattutto senza considerare una questione aperta la sua non appartenenza al genere umano?

Si può dunque essere cittadini senza essere umani? E un animale può esserlo? Perché un robot sì e un cane no? È l’intelligenza lo spartiacque? Quindi dopo accese e infinite discussioni sul discrimine tra uomo e animale, sulla non valenza dirimente del criterio della razionalità e dell’intelligenza, sullo status giuridico degli animali, sulla possibilità di riconoscere loro dei “diritti”, si ritorna prepotentemente al criterio della quasi sola intelligenza, al massimo unita alla somiglianza fisica, bypassando la questione del “corpo vivo”, del bios, della riproduzione, della genetica?

E ancora, chi “decide” se un robot è intelligente? Chi misura, e come, l’intelligenza? E se un computer fosse più “intelligente” di un robot umanoide, riconosceremmo la cittadinanza anche a lui… o sarebbe meglio dire ad “esso”? Perché usiamo un pronome femminile per Sophia e per un computer useremmo un neutro? Perché Sophia deve avere un nome?

Una scena dal film “Io, robot”

Tutti interrogativi almeno sensati mi pare, se non pesanti e profondi, che potrebbero rimettere in discussione un intero paradigma antropologico, e che meriterebbero di venire almeno sollevati… e invece vengono considerati roba da filosofi, o timori da conservatori, davanti al progresso inarrestabile dell’AI e delle nuove frontiere del postumanesimo. Ma ancora di più, tali questioni vengono soffocate e derubricate davanti a un altro tipo di progresso: quello economico globale, vera intelligenza artificiale che detta legge al mondo, e per il quale si sacrificano volentieri il senso critico, le analisi giuridiche, le cautele antropologiche, i dubbi astratti da filosofi, e pure i diritti umani. Ma non quelli dei robot, a quanto pare.

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Damiano Bondi

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