Monologhi

Il giorno dopo la quarantena

Scritto da Alfonso Lanzieri

di Luigi Imperato

Premessa

L’esplosione del contagio ci ha messo di fronte ad una condizione che non conoscevamo o che conoscevamo solo indirettamente, attraverso la documentazione storica, ed ha rimesso in discussione le nostre abitudini ed i nostri stili di vita abituali. Ma non solo: pare piuttosto diffusa l’impressione che al termine dell’epidemia, sperabilmente non troppo lontano, occorrerà ripensare i fondamenti della nostra vita individuale e sociale. Ciò pone un compito impegnativo non solo alle scienze sociali, ma anche alla filosofia, la quale dovrà ritornare su paradigmi di pensiero consolidati e saggiarli alla luce degli accadimenti della congiuntura presente, ponendo in discussione categorie quali ‘comunità’, ‘libertà’, ‘natura/cultura’, ‘vita’. Tali categorie si trovano, certo, alla base di ‘filosofie speciali’ quali l’etica, la filosofia politica, la filosofia del diritto, la filosofia dell’economia, l’antropologia filosofica; e tuttavia richiedono ancora di essere collocate all’interno di un orizzonte teorico di carattere più generale, non certo per disegnare (impossibili) traiettorie sistematiche, ma soltanto perché una crisi di sistema, quale quella che stiamo vivendo, richiede un impegno non solo e non meramente settoriale. Disegnare orizzonti per quanto possibile ampi non vuol dire allora, in questo caso, chiudere gli eventi all’interno di insostenibili camicie di forza teoriche, quanto esperire il tentativo di inserirli in piani di comunicazione non statici e sempre ridefinibili, di volta in volta suscettibili di essere emendati, integrati, ridiscussi.

Sfondo teoretico

Il primo problema che si pone è uno di quelli che perennemente affliggono la riflessione filosofica, quello tra pensiero e realtà, da un lato, e tra vita qualificata e vita biologica, dall’altro.

  1. Pensiero e realtà. Sembra a tutti gli effetti che la diffusione del contagio abbia posto gravemente in ambasce ogni forma di soggettivismo filosofico, ogni forma di idealismo e ogni forma di prospettivismo per il quale “non esistono fatti, ma solo interpretazioni”. Le cose sono però meno semplici di quanto appaia. È vero infatti che esiste una realtà al di là del pensiero, eppure, nella misura in cui questa ha relazione con noi, viene sempre immessa nelle maglie dei nostri schemi cognitivi. Si potrebbe dire allora che tutto è relazione, ma non che tutto è interpretazione nel senso che l’interpretante possa definire l’oggetto della sua interpretazione come se fosse puro prodotto “suo”, dipendente soltanto dall’angolazione da cui egli guarda o da cui vuole e/o può guardare. La coscienza può orientare e orientarsi nel contenuto d’apparizione, e in questo mostra il suo carattere sempre condizionato/condizionante, e non è pertanto mai puramente “rispecchiante”: non riflette mai in forma “cristallina” il semplice “dato”, perché è orientata non solo da se stessa né da un contenuto puro, ma anche dal prodotto delle mediazioni del contenuto di apparizione, di cui il suo stesso punto di osservazione è talvolta il risultato; tuttavia, il suo punto di osservazione non è mai il punto finale del suo aprirsi al mondo, perché essa può, a sua volta, attivamente riorientarsi in esso, così riorientando il contenuto di apparizione. Pur all’interno di queste limitazioni e precisazioni, la coscienza non può tuttavia “decidere” tout court il suo contenuto di apparizione, perché, se conoscenza è relazione, ossia rapporto a due (o più), l’aspetto soggettivo è soltanto un termine della relazione, laddove l’altro termine, il contenuto d’apparizione, pur non essendo mai semplicemente “dato”, attingibile come “puro essente” sganciato dal rapporto con il pensiero, non coincide con il pensiero stesso. Pensiero e realtà esistono, dunque, come tali solo nel processo conoscitivo, e tuttavia il processo conoscitivo non è un mero gioco monologico del pensiero e della coscienza.
  • Soggettività, comunità, vita, relazione. Il contagio ci mette poi di fronte all’evidenza che, nel momento in cui la vita è minacciata, sono rimesse in discussione cesure che, ordinariamente, appaiono consolidate, come per esempio quella tra il sé e l’altro da sé, tra l’individuo e la società, tra la vita biologica e la vita ‘umana’ o qualificata.

In prima approssimazione, si direbbe che ciascuno scopra se stesso in due fenomeni ugualmente originari: il primo è che la sua esistenza non coincide con quella di nessun altro; il secondo è che ogni esistenza si trova in un legame originario, indeducibile, con tutti gli altri. Non c’è una preminenza di nessuno dei due fenomeni sull’altro: l’essere-un-singolo e l’essere-già-insieme, che pure non sono la stessa cosa, costituiscono a pari titolo il nostro modo d’essere al mondo. Eppure, le due dimensioni spesso non convivono pacificamente: se si parte dal secondo fenomeno per dedurre il primo si rischia di compromettere la libertà, se si parte dal primo per giustificare come pura derivazione il secondo il vivere insieme è a rischio costante di disgregazione. Nessuno dei due fenomeni può definitivamente prevalere sull’altro; al contrario, essi generano equilibri mobili, in ogni momento suscettibili di essere reinterpretati. “Etica”, “politica” e “diritto sono le pratiche e i saperi con i quali e attraverso i quali si cerca incessantemente la definizione e la ri-definizione di tali equilibri. Il loro principio generatore formale, che di volta in volta va definito in relazione ai suoi contenuti, sarebbe il seguente: esser-sé con altri, attraverso altri, insieme ad altri. L’esser-sé non può essere risucchiato da questi “con”, “attraverso”, “insieme”: pur se ciascuno è parte di un tutto, il tutto stesso non può che articolarsi attraverso le parti, che devono sussistere, per potere essere in un tutto, proprio anche “come” e “in quanto” parti.

l’essere-un-singolo e l’essere-già-insieme, che pure non sono la stessa cosa, costituiscono a pari titolo il nostro modo d’essere al mondo

Ci sono tuttavia momenti in cui l’esser-sé dipende in prima istanza dalla capacità di essere con altri. Il momento presente è uno di quelli. Siamo, paradossalmente, comunità nell’essere singoli. Proprio perché ci sappiamo legati a tutti gli altri viviamo isolati, sicché ha ora possibilità di rinsaldarsi un legame invisibile. Molti hanno temuto e temono in questa fase una deriva individualistica, un accrescersi delle paure, delle diffidenze, delle separazioni, degli odi reciproci. Un rischio da non sottovalutare. Eppure potrebbe sorgere, proprio ora, un sentimento che avrà bisogno di essere rinforzato e protetto: il sentimento che, oscuramente, ci avverte che la libertà e la comunità non possono essere separate, che ciascuno incide nelle e sulle vite degli altri, che dunque ciascuno deve aver cura di sé per aver cura degli altri e viceversa. Ciascuno sta, in altre parole, riscoprendo un’alterità in se stesso. Non è sorprendente che questi sentimenti, come quelli loro simmetricamente contrari (paura, risentimento, diffidenza, aggressività) possano risvegliarsi in momenti ad alto impatto emotivo, in momenti nei quali la vita stessa è in pericolo. Di fronte all’esposizione data dalla dimensione puramente biologica scopriamo una comunanza di “sostanza etica” che è oltre quella puramente biologica. Questa sostanza etica non è “cosa”, ma “relazione”. La relazione richiede l’esser-insieme e l’integrità delle parti che la costituiscono, sicché la cura della vita, della propria quanto di quella altrui, non può essere mai ridotta al suo sostrato puramente organico. Così sarebbe se questa ‘cura’ si rivelasse priva della possibilità di essere permeata dall’alterità e priva di ogni riferimento culturale e simbolico; invece, nella misura in cui una comunità mette in gioco se stessa e la sua tenuta in quanto comunità attraverso il temporaneo sacrificiodella libertà dei singoli, consolida quel legame invisibile (come poi è, di fatto, ogni legame autenticamente comunitario) che unisce nella separazione, di cui sopra si diceva. In questa congiuntura, in altre parole, l’unico modo per riscoprirsi liberi è saper abitare la separazione-che-unisce: certamente impegno di non piccola portata, che corre sempre il rischio di degenerare nel suo contrario, nella difesa di sé che esclude l’altro. Ma questa fragilità è, in definitiva, propria di ogni impegno autenticamente etico, in quanto fondato sulla fragilità della nostra condizione di esseri liberi, ma esposti.  Potrei pertanto così riassumere quanto detto: si è liberi perché si è un sé. Ma si è, originariamente, liberi non “dagli” altri, bensì “con” gli altri.

Luigi Imperato è Dottore di Ricerca in Filosofia

Sfondo politico-giuridico

Le decisioni assunte dal Governo italiano costituiscono la più significativa e grave sospensione di alcuni diritti costituzionalmente sanciti dalla nascita dello Stato repubblicano. Al di là della correttezza procedurale delle scelte dell’esecutivo – su cui soltanto i giuristi potranno, dopo approfondita analisi, pronunciarsi con cognizione di causa – , è opportuno chiedersi se l’orientamento in esse espresso sia, in linea generale, condivisibile.

La nostra Costituzione tutela un certo numero di beni giuridici, tra cui il diritto alla vita e alla salute, il diritto al lavoro, la libertà d’espressione, di riunione e di stampa, la libera circolazione delle persone su tutto il territorio nazionale. In condizioni ‘normali’, cioè ‘non eccezionali’, questi beni non entrano in concorrenza diretta tra loro (lasciamo qui impregiudicata la questione se essi siano effettivamente tutelati o talvolta sacrificati in nome di altre priorità, come l’equilibrio di bilancio), ma coesistono all’interno di quel sistema di relazioni sociali il cui svolgimento è disciplinato dalle leggi. Al contrario, in una condizione d’emergenza come quella attuale la libertà di movimento è stata conculcata in nome della tutela della salute pubblica. È possibile dar conto di questo conflitto, giustificarlo, continuando a far riferimento ai valori espressi nella nostra carta costituzionale? Queste due questioni, che non possono essere certo trattate in maniera nemmeno lontanamente adeguata in questa sede, richiedono però almeno lo sforzo di confrontare le misure eccezionali che sono state varate con la teleologia immanente al nostro ordinamento costituzionale, ossia con la scala di fini che esso si pone, al vertice della quale si trovano senz’altro la conservazione della comunità politica, delle istituzioni che la rappresentano e delle libertà individuali. Le scelte del governo sono state evidentemente orientate dalla percezione che il diffondersi del contagio rischi di mettere in discussione la stessa integrità della comunità politica, e ciò ha suggerito di sacrificare in nome della tutela della salute pubblica la libertà di movimento e anche, in alcuni casi, il diritto al lavoro; la valutazione che, implicitamente, è stata operata è che la vita sia la condizione della libertà e del lavoro e che invertire quest’ordine di condizioni risulterebbe impossibile o comunque non auspicabile. Si tratta, indubbiamente, di un modo di procedere non destinato all’universale consenso, perché esso non è scevra di problemi e di inconvenienti. Partendo dal presupposto che si sia al cospetto di un vero stato d’eccezione – ciò su cui pure è stato sollevato qualche dubbio –, ci si può chiedere se sia realmente questo l’unico modo di procedere, se questo temporaneo esercizio di autoritarismo e il desiderio di controlli ancora più stringenti espresso da una parte della popolazione possano minare alla radice la salute delle nostre istituzioni, metterle a rischio di una svolta autoritaria anche nel post-epidemia.

Si tratta di domande tanto più aperte, quanto più è possibile constatare che la soluzione italiana, che ricalca quella del governo dittatoriale cinese, non è stata presa a modello da tutti gli altri paesi europei, almeno in una prima fase, anche se Francia e Spagna stanno adeguandovisi, così come la Germania comincia a porre in atto una qualche forma di contenimento, pur senza giungere, per ora, a misure draconiane come quelle adottate da noi. All’estremo opposto, la Gran Bretagna ha scelto la via di una presunta immunità di gregge derivante da un contagio di massa, sul cui altare il premier Johnson si dichiara disposto a sacrificare la vita di decine di migliaia, se non di centinaia di migliaia, di suoi concittadini.

Pongo qui, a proposito di tali diverse strategie, tre domande semplici nella loro formulazione, ma a cui è difficile dare una risposta definitiva ed esaustiva: rispetta maggiormente la comunità che esso è chiamato a rappresentare con le sue istituzioni uno Stato che non si arroga il potere di decidere a priori che vi sono dei cittadini che devono essere esclusi dalle cure o uno Stato che si attribuisce il diritto di limitare temporaneamente la libertà di circolazione e di riunione? È un esercizio di biopotere maggiore costringere tutti i componenti della comunità a prendersi cura della salute collettiva o stabilire che vi è una quota di cittadini sacrificabili? Infine, siamo esposti maggiormente al pericolo di deriva autoritaria limitando temporaneamente alcune libertà costituzionalmente sancite oppure non preoccupandosi dell’assai probabile caos sociale che deriverebbe dalla mancanza di accesso alle cure (non v’è un sistema sanitario nazionale che possa sostenere completamente il peso dell’epidemia) e dalle morti di massa? Personalmente, pur riconoscendo l’alta problematicità delle soluzioni adottate in Italia (ma tale problematicità non è insita nella cosa stessa?), propendo a credere che nessuno Stato possa ritenere di decidere a priori di non curare una quota di cittadini, e propendo, altresì, a credere che un eventuale scenario di caos e di paralisi di fatto rechi con sé un rischio più alto di deriva autoritaria di quello derivante dalla sospensione temporanea di alcuni diritti costituzionali. Se, infatti, ciò contro cui lottiamo è l’equiparazione dello Stato a Dio mortale, ossia se il nostro timore è quello di uno Stato-Leviatano, quale potere è più simile a quello di Dio se non quello di decidere della vita e della morte degli uomini?

Scenari futuri?

Il virus, con gli sconvolgimenti economici che porta e porterà con sé nei prossimi anni, ci costringerà a rivedere anche il nostro modello economico-sociale. Se si vuole intendere il senso più profondo di quanto avvenuto, bisognerà prendere atto che non si potrà ritornare, come se nulla fosse accaduto, all’individualismo che negli ultimi decenni ha dominato la vita politica, economica, sociale, perfino culturale. Questa vicenda ha infatti messo in evidenza che il nostro stare al mondo si regge, per dir così, su due gambe, delle quali l’una è la libertà e il non conculcabile diritto all’autodeterminazione individuale, l’altra il legame sociale, con i diritti e i doveri che ne derivano.

Il nostro sistema economico ha, nel corso di tre decenni, mortificato e quasi annichilito questa seconda gamba; bisognerà pertanto ritornare su questioni fondamentali come la riorganizzazione del welfare, il diritto al lavoro, alla salute, all’istruzione. Per usare un noto passo del Vangelo: se è vero che il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato, a maggior ragione dovrà essere vero che i sistemi economici sono fatti per l’uomo e non l’uomo per i sistemi economici. Assunto questo principio come stella polare dell’organizzazione e dell’agire economico, si potrà poi agire pragmaticamente per stabilire le misure efficaci a sostenere entrambe “le gambe” della nostra vita sociale, senza più commettere l’errore di innalzare a feticci o ad entità metafisiche il “mercato” e/o “lo Stato”. Un tale cambiamento presuppone però a sua volta un simmetrico cambiamento culturale di non piccola consistenza. Occorrerà ridisegnare il modo in cui costruire il nostro orizzonte simbolico, non farlo più dominare in forma assoluta dalle merci, dal denaro, dal successo. Occorrerà che la scuola e l’università formino cittadini, non più solo lavoratori-consumatori-tecnici. A dare linfa a questo processo di cambiamento dovrebbero poi contribuire anche le istituzioni europee, che non dovrebbero più porsi e perfino nemmeno apparire come nemiche dei popoli in nome di un’ortodossia economica non più sostenibile, pena il loro fallimento, già per molti versi largamente avvertibile. L’Europa dovrà, cioè, usare questa crisi non per alimentare le consuete divisioni interne tra aree forti e aree deboli, aree (presunte) “virtuose” e aree (presunte) “viziose”, paesi del Nord e paesi del Sud, ma per accedere ad una compiuta e reale logica e prassi cooperativa. Non sarà affatto semplice, dato che le crepe mostrate dall’unione monetaria non sono in alcun modo casuali, ma direttamente derivate dalle diverse esigenze delle economie dei diversi paesi europei, dal loro diverso peso e dalla loro diversa influenza in seno alle istituzioni comunitarie. Le prime, incerte, reazioni della Banca Centrale Europea non appaiono, in questo senso, confortanti. È certo che quanto qui detto in maniera assai semplificata non è, allo stato, che un elenco di desiderata, che si dovrà confrontare con la durezza e con la complessità di una realtà sociale sempre più connessa ma anche sempre più stratificata nelle differenze, e che a volte sembra, luhmannianamente, costituita di sistemi e di dispositivi tecnici autopoietici e autoreferenziali. Tuttavia, e infine, anche se è presto per comprendere quale direzione prenderà il mondo nel futuro prossimo, forse non è presto per dire che il virus non lascerà le cose come le ha trovate.

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Alfonso Lanzieri

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