Affermare che nell’ambito degli studi sul cervello e della riflessione sul fenomeno della coscienza, la metafora della mente-computer sia fortemente criticata è ormai quasi una banalità, almeno tra gli specialisti. Il modo in cui percepiamo qualcosa e facciamo esperienza del mondo intorno a noi, infatti, è fortemente debitore al nostro corpo, alle azioni che compiamo, agli strumenti che utilizziamo e alle relazioni sociali che abbiamo con l’ambiente. Le ricerche condotte nell’orizzonte della cosiddetta pragmatism turn, pur nella diversità degli indirizzi, lo indicano in modo pressoché univoco. «La pragmatist turn – ha scritto Guido Baggio ̶ è a pieno titolo la più recente espressione della seconda generazione della scienza cognitiva che a partire dalla metà degli anni Settanta si è sviluppata nei vari campi della linguistica, della psicologia, della biologia e delle neuroscienze, e che dagli anni Novanta ha visto il proliferare di nuovi approcci alla cognizione. Superando il cognitivismo e il computazionalismo della scienza cognitiva classica – che intendeva la mente umana come una sorta di programma astratto del cervello guidato da regole logiche e la cognizione come qualcosa di disincarnato, formale e interiore alla scatola cranica – gli approcci embodied (Varela et al. 1991), embedded (McClamrock 1995), enactive (Noë 2004) ed extended (Clark & Chalmers 1998) alla cognizione nascono dalla necessità di fornire un resoconto empiricamente affidabile della natura e del funzionamento della cognizione, della mente e dell’esperienza umana» (La teoria dell’atto di Mead. Un contributo alla pragmatist turn nelle scienze cognitive, Nóema, 9, 2018). Anche se il ruolo del cervello è essenziale, la coscienza sembra generata proprio dalla vita stessa nella sua interezza e non da un suo pezzo. Mutuando un’espressione del filosofo spagnolo Ortega y Gasset, ma cambiandone un po’ la destinazione d’uso, potremmo dire che “Io sono io e la mia circostanza” (chi vuole approfondire può leggere l’utile Il cervello in azione, di A. Borghi e F. Caruana, Il Mulino 2016).
Anche se il ruolo del cervello è essenziale, la coscienza sembra generata proprio dalla vita stessa nella sua interezza e non da un suo pezzo
Sbaglieremmo, però, se pensassimo che il “neurocentrismo” sia scomparso. Il dibattito è ancora aperto. Lo dimostra un libro pubblicato nel 2021 e di recente uscito in italiano. Si tratta del saggio di un noto neuroscienziato inglese, Anil K. Seth. Il titolo originale è Being You: A New Science of Consciousness, tradotto dall’editore Cortina con un ancor più accattivante Come il cervello crea la nostra coscienza. Furbizie editoriali a parte (legittime e comprensibili), il saggio si propone di dissolvere l’ hard problem della coscienza spiegando il complesso e affascinante “meccanismo predittivo” del cervello che starebbe alla base di quell’unica e particolare esperienza del mondo che siamo soliti chiamare “Sé”. La prospettiva in prima persona sulla realtà sarebbe – scrive esplicitamente Seth – una «allucinazione controllata» I colori, i sapori, le sensazioni tattili ecc., sarebbero cioè generati da una particolare ricostruzione operata dal cervello a partire dagli input che penetrano in noi attraverso le “finestre sensoriali”. Da studiosi come Seth c’è sempre da imparare, per cui gli appassionati troveranno nel libro materiale di sicuro interesse, che in questo contributo non abbiamo potuto valorizzare. Bisogna però notare che, al netto dei contenuti particolari, l’impostazione di fondo di Seth – il modello inside-out – non è così radicale e innovativa come descritta da alcune presentazioni del saggio, sia inglesi che italiani. Uno dei padri delle neuroscienze contemporanee, Vernon Benjamin Mountcastle, ad esempio, definiva la sensazione «un’astrazione, non una replica, del mondo reale» già nel 1975, sposando l’idea di un cervello come macchina che elabora dati sensoriali e ricostruisce il mondo della nostra esperienza abituale. Siamo ancora molto vicini alle scienze cognitive classiche e abbastanza lontani dal pragmatism turn. Ma c’è ancora qualcosa da discutere.
Il saggio si propone di dissolvere l’ hard problem della coscienza spiegando il complesso e affascinante “meccanismo predittivo” del cervello che starebbe alla base di quell’unica e particolare esperienza del mondo che siamo soliti chiamare “Sé”
Proprio in apertura del libro, Seth espone la visione filosofica che guida le proprie ricerche. È qualcosa da apprezzare perché dimostra onestà e consapevolezza intellettuale. «La mia posizione filosofica preferita, e l’assunto di default di molti neuroscienziati, è il fisicalismo. Consiste nell’idea che l’universo sia fatto di una stoffa fisica (physical stuff) e che gli stati di coscienza siano identici a o in qualche modo emergano da, particolari disposizioni di questa stoffa fisica». Ora, anche se forse inconsapevolmente, Seth in una maniera diversa e per così dire aggiornata, riprende il ponteggio metafisico di Galileo: anche per lo scienziato italiano, infatti, le parti quantitative del reale (le famose “qualità primarie”), combinandosi, danno luogo a parti o esperienze qualitative (le “qualità secondarie”). Le prime esistono in sé (grandezza, posizione nello spazio e nel tempo, movimento ecc.), le seconde invece solo in quanto soggettivamente percepite. Il colore verde della foglia, il sapore della pizza, il calore di questa stanza, sono effetti dell’interazione delle parti quantitative della realtà, in questi casi tra la luce, l’impasto e la temperatura con il mio sistema nervoso. Galileo ne Il Saggiatore (1623), infatti, scrive che allorquando pensa alla materia, questa gli sembra inseparabile dalle qualità primarie già descritte, «ma ch’ella debba essere bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingrato odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere da cotali condizioni necessariamente accompagnata. [….] Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori, etc., per la parte del soggetto nel quale ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sí che rimosso l’animale, sieno levate ed annichilate tutte queste qualità». Questa impostazione si è rivelata molto efficiente per tanti motivi che qui sarebbe lungo elencare.
Per lo scienziato italiano, infatti, le parti quantitative del reale (le famose “qualità primarie”), combinandosi, danno luogo a parti o esperienze qualitative (le “qualità secondarie”)
Il problema è che da almeno quattro secoli non sappiamo come sia possibile che dal materiale “emerga” lo psichico. E non sembra proprio una questione da nulla. Tant’è che uno dei più importanti neuroscienziati viventi, E. Kandel, ha affermato nel 2006: “Non comprendiamo il modo in cui l’attività elettrica dà origine al significato che attribuiamo a un dato colore o alla lunghezza d’onda di un certo suono”. Ed è solo una delle tantissime voci di peso che potremmo citare. L’imbarazzo teorico, del resto, è confermato dallo stesso Seth. Rileggiamolo. Lo studioso afferma che «…gli stati di coscienza siano identici a o in qualche modo emergano da, particolari disposizioni di questa stoffa fisica». Anzitutto, si deve notare che o gli stati di coscienza sono identici alla materia (in tal caso si sposa la tesi del cosiddetto “eliminativismo”) oppure emergono dalla materia (in questo caso siamo di fronte all’ “emergentismo”). Quindi si tratta di due ipotesi che difficilmente possono essere accostate in tal maniera. Ma la questione più grossa è tutta racchiusa in quel “in qualche modo” (somehow): è proprio questo “modo” infatti la cosa fondamentale da spiegare e che resta inspiegata.
Non è possibile cavarsela semplicemente dichiarando che la coscienza è una cosa tra le cose: la coscienza, infatti, non s’incontra come tutti gli altri enti del mondo. Non è un fatto ma è quell’atto a partire dal quale tutti i fatti del mondo ci sono dati. Forse domandarsi com’è possibile che lo psichico si generi dalla materia conduce a un vicolo cieco. Probabilmente la strada di quanti pensano che l’intera impostazione galileiana vada rivista può essere promettente per organizzare in modo migliore la riflessione sul fenomeno della coscienza, evitando vicoli ciechi. Lo psichico e il materiale potrebbero derivare da un livello di realtà più originario che li genera come una grande coscienza virtuale che entrambi li contiene. Ma su questo si dirà un’altra volta. Ci preme, in chiusura, rimarcare però il grande potere di seduzione del “neurocentrismo”. La saga di Matrix, il film d’animazione Inside-Out, la serie Netflix 1899 sono solo alcuni dei titoli di enorme successo, in qualche modo collegati all’idea del cervello-lampada di Aladino da cui si genererebbe tutta la nostra esperienza del mondo. Come mai tale ipotesi risulta così irresistibilmente affascinante? I motivi possono essere diversi ma ce n’è uno che ci pare lampante: perché è semplice. La ragione, dunque, in fin dei conti, è estetica. Così come matematici e fisici possono essere più attratti da una certa equazione perché “elegante” – e magari si fanno fuorviare – allo stesso modo un’idea semplice, che prova a spiegare tutto con pochissimi elementi, viene maggiormente incontro a uno dei nostri desideri più profondi: unire bellezza e controllo. Certo, tra due spiegazioni, quella più snella è preferibile a quella più complicata, come suggerisce il famoso “rasoio” di Ockham: ma si tratta di un criterio euristico che va verificato caso per caso. Lo stesso teologo francescano, del resto, nel XVI secolo, affermava che «Dio potrebbe produrre immediatamente da sé solo, qualunque effetto che Egli causa con la mediazione di una causa seconda». Perciò, Dio potrebbe produrre in noi la conoscenza intuitiva, ad esempio, di una mela, senza l’effettiva presenza “là fuori” di una mela. Che è più o meno lo stesso potere divino che il neurocentrismo attribuisce al cervello. Forse un po’ troppo.
Molto utile e interessante. Aspettiamo un Bergson non deleuziano.
Caro Professore, è proprio la direzione verso cui sto provando a muovermi. Speriamo di riuscirci. Grazie per la lettura.
Come al solito leggerti mi appassiona e mi arricchisce. Ovviamente sembrerò di parte ma mi è piaciuta molto la citazione del Guglielmo. Cordiali e affettuosi saluti.
Grazie mille per la lettura Giuseppe
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