Emergenza coronavirus. Strade deserte e ben pochi rumori, e questo era nelle attese. Tuttavia, si riscontra anche ciò che non era altrettanto prevedibile. Ad esempio, in questo lembo di Sicilia non si scorge quasi nessuno che prenda il sole sul balcone o si affacci alla finestra. Dagli appartamenti dei vicini trapelano ben pochi suoni, si sente di rado lo strillare di un bambino, le voci di una discussione concitata, una musica… Ti sembra che i bambini siano ammutoliti, gli anziani annichiliti e gli animali domestici ammansiti. E ti sembra pure che il correlato acustico di tante attività quotidiane sia stato posto in off da un’entità preternaturale, forse dal dio minore, e cattivo, degli gnostici. Oppure da una schiera di divinità minori che governano questo mondo: arconti invisibili, inappellabili, crudeli e stupidi che agiscono dietro le quinte di uno scenario kafkiano. Ti piacerebbe persino poter premere un tasto e “riattivare l’audio”. E poi, cui prodest questo silenzio? Vale, forse, a slatentizzare una qualche segreta vocazione alla vita eremitica…
Dopo i giorni dei flash mob di balcone in balcone, dell’inno nazionale urlato da cori estemporanei e delle “tammuriate” improprie con padelle e stoviglie, è sceso appunto il silenzio. Interrotto, di tanto in tanto, dal vibrare dell’asfalto al passaggio di un TIR, dalla modica scia acustica di un’auto che passa, di un elicottero che sorvola i quartieri cittadini o, peggio, dall’urlo di una sirena (“Saranno forse più frequenti rispetto a ieri?”, oppure “Ancora un’altra?…E non è passata neanche un’ora dalla precedente! E i droni, poi, fanno rumore?”). E, se ti avvedi che si tratta della sirena dei vigili del fuoco anziché di un’ambulanza, quasi ti senti sollevato. Hai già stilato una gerarchia pro tempore delle disgrazie, in ragione della loro gravità. Al vertice, il virus. Il megafono che, più volte al giorno, diffonde le sinistre intimazioni del sindaco a “non uscire” vale a confermare siffatta gerarchia.
Sebbene i media ci informino continuamente delle ingenue, o ingegnose, trasgressioni dei divieti, puoi constatare, non senza sorpresa, che sono in molti ad obbedire ultra petita alle autorità. Più che il senso civico poté la paura. E chi, almeno per un po’ di tempo, riesce a scacciare la “paura di…” si sente sopraffatto da quell’angoscia che nulla sa di questo o quel genitivo.
Adesso, la morte si ripropone all’attenzione della gente. L’uomo del postmoderno aveva fatto di tutto per rimuoverla. Eppure, come sempre, il rimosso ritorna, il revenant terrorizza in forme sempre nuove. Come in passato, la morte predilige gli anziani, ma non risparmia del tutto i giovani. Blaise Pascal aveva davvero preso sul serio il tragico proprio della condizione umana, risalendo sino all’origine della “nobiltà” e della “miseria” che ineriscono alla condizione dei mortali, eppure peccava di eccessivo ottimismo nello scrivere che per uccidere un uomo ci vuole poco, anche una sola “goccia di vapore”. No, da tempo sappiamo che basta anche meno. Ad esempio, è sufficiente persino “qualcosa” che non è neppure un virus, bensì una glicoproteina poco ortodossa: quel prione privo di codice genetico che, prima di uccidere, mette fuori gioco il sistema nervoso, dell’uomo come delle mucche.
È assassino, dunque, il prione. È assassino anche il nuovo rampollo dei coronavirus: appena un filamento di RNA integrato in superficie, quanto basta, da lipidi o proteine. Un nonnulla, anche rispetto a quella “goccia di vapore” che lo trasporta e lo ammannisce ai mortali. A dispetto di Pascal, ad uccidere ora non è la “goccia”, che, semmai, fa da tassista all’assassino. E questo, da uomo del secolo decimosettimo, Pascal non lo avrebbe immaginato. Ai nostri giorni, pertanto, la “canna pensante” risulterebbe ancora più fragile di quanto credesse l’autore delle Pensées.
In questa primavera inondata di sole, nelle strade il silenzio, il vuoto non rivelano soltanto l’assentarsi dei suoni o il sottrarsi degli oggetti alla visione. Configurano, piuttosto, il rovescio estraniante del quotidiano e introducono noi tutti in una distopia inedita, in uno scenario che nessun romanziere avrebbe immaginato né cineasta rappresentato.
È noto che, nel genere letterario e filmico denominato “distopia”, si narra di una società i cui mezzi di comunicazione (onnipervasivi, manovrati da un potere perverso) contribuiscono a forgiare un paesaggio umano a dir poco inquietante. Ciò vale, in qualche modo, anche con riguardo all’emergenza attuale, allorché i social scodellano i fake più iperbolici e i media trasmettono messaggi in gran parte univoci e in modo quanto mai ossessivo. Basti pensare a quante volte siamo stati esortati – e lo siamo tuttora – a “lavarci le mani” nonché a rispettare le “distanze di sicurezza” dagli altri. Se, come avviene ora, la loro frequenza oltrepassa la soglia dell’umana tollerabilità, tali messaggi altro non fanno che amplificare la costellazione di umori e sentimenti deleteri – l’irritazione, l’insofferenza, l’inquietudine, lo sconforto, la frustrazione…– che le attuali circostanze distopiche basterebbero senz’altro a suscitare. È appena il caso di aggiungere che coloro i quali non intendano comunque lavarsi le mani più spesso, probabilmente non lo faranno neanche se bersagliati da messaggi ancora più martellanti.
Viviamo quindi, anzi stiamo, nella distopia. I media ci dicono che è bello disporre (finalmente) di tempo. Tuttavia, proprio quel tempo che ci avrebbe permesso di “ritrovare” noi stessi, a volte ci regala, invece, la pena del “vederci vivere”, quasi come ai personaggi di Pirandello. Nel migliore dei casi, e con buona pace dell’Agrigentino, questa nuova condizione può preludere a un salutare cambiamento del modo di pensare e di vivere nel “dopo”. Resta il fatto che tale esperienza, al suo insorgere, “non è bella”. In sovrappiù, in taluni balena il sospetto che l’attuale concerto massmediatico possa costituire il ballon d’essai di un controllo globale delle nostre vite, della biopolitica realizzata in un prossimo futuro da un Potere mai pago del suo “potere” e non motivata da circostanze così drammatiche. I contact tracing dei cellulari, ormai fruibili, rendono ancora più plausibile tale scenario. Ogni tuo passo può essere recensito grazie all’app in parola. Intanto, i programmi per bambini convincono i più piccoli che è meglio stare a casa. #Io resto a casa è il messaggio che vale per grandi e piccini.
Se, giustificati dall’autocertificazione prescritta dal Governo, usciamo per la strada, il vuoto e il silenzio richiamano alla nostra mente Le muse inquietanti di De Chirico.
Ora quella luce radente, nonché le piazze, gli edifici squadrati, le ciminiere sullo sfondo e i manichini ci appaiono meno in-quietanti. Nella realtà, la luce della nostra primavera, ben più viva di quella, si stende beffarda sul “non luogo” in cui siamo costretti.
Rinchiusi nelle nostre case, l’ipertrofia dell’Io ci fa dimenticare che, nello stesso momento, sussistono costrizioni molto più dolorose delle nostre: i malati costretti a una respirazione artificiale, i carcerati, le persone che non possono rientrare nel loro paese, i segregati in quarantena, i sudditi delle dittature, le vittime di violenze domestiche, i prigionieri dei lager libici, le famiglie siriane ammassate nei campi profughi…
Intanto, i mezzi di comunicazione continuano a bersagliarci con un profluvio di consigli, rassicurazioni nonché di peana alla speranza. Il Big Brother? Togliamogli l’aggettivo, declassiamolo, senza attendere il verdetto di Standard & Poor’s. Kafka, Orwell? Rischiano di apparirci amateurs, meri dilettanti. La realtà va oltre le loro creazioni letterarie.