Quella che segue è un’intervista al filosofo Rocco Ronchi sul 68, a 50 anni da quell’evento che ha segnato la seconda parte del ‘900 e continua a far sentire il suo influsso anche ai giorni nostri. La riflessione di Ronchi, ordinario di Filosofia Teoretica all’Università de L’Aquila, ha nel Sessantotto certamente uno dei suoi punti di ricorrenza. Del resto, tra le predilezioni intellettuali del filosofo italiano c’è Gilles Deleuze, grande “ideologo” del movimento, cui ha dedicato pure un libro, Gilles Deleuze: credere nel reale (2015), nel quale di 68 si parla diffusamente.
Il 68 suscita o grandi entusiasmi o grandi anatemi. Come mai?
Il 68 viene letto spesso come evento di contestazione generalizzata, e la negazione ne sarebbe il momento costitutivo. Se si assume questo presupposto, è facile vedere in questa negazione il “liberi tutti” causa della liquefazione attuale, al disordine contemporaneo e così via. Per me questo è il punto da discutere: il ’68 è stato negazione? No, è sbagliato secondo me. Io privilegerei invece una lettura in chiave affermativa. Il 68 è stato un grande momento di affermazione. Se andiamo a vedere cosa c’era dietro ai grandi “No” del 68 – no alla famiglia, no alla patria, no a Dio –che sembravano essere l’essenza del ’68, a me sembra possiamo trovare un grande “Sì”. Il 68 è stato, da tutti i punti di vista, quello che Deleuze chiama un’intrusione del Reale puro, e quindi è stato più spinoziano che hegeliano o dialettico-negativo. In realtà i no del 68 erano negazione di tutto quello che impediva un’affermazione radicale della vita, e quindi erano dei no funzionali a un sì, e a un tentativo di liberare la dimensione dell’esperienza da tutto quanto la vincolava, e liberarla soprattutto dall’orizzonte della mancanza, del debito. La potenza del 68 è affermativa, e molte delle questioni sul 68 nascono dal fatto che lo si legge come negazione, contestazione, indignazione solamente. Lo si interpreta, insomma, dando al termine rivoluzionario quel senso che in realtà non ha, perché rivoluzione non è contestazione dell’ordine ma affermazione di un altro ordine.
Lei ha citato Deleuze con l’enigmatica espressione “un’intrusione del Reale puro”. Cosa vogliono dire queste parole?
Per rispondere debbo richiamare la definizione completa che lo stesso Deleuze dà sul 68 nel 1988, in occasione del ventennale, un periodo in cui tutte le più diffuse critiche al 68 erano già state formulate. Si tratta di una definizione del 68 e al tempo stesso anche dell’Anti-Edipo, un testo del 1972 scritto con Guattari, che per molti è stato una specie di sintesi del 68. Bene, ecco le parole di Deleuze: “L’Anti-Edipo era l’univocità del reale, una sorta di spinozismo dell’inconscio e credo che il 68 rappresentasse proprio questa scoperta. Chi odia il 68 o ne giustifica il rinnegamento, crede che sia stato simbolico o immaginario. Ma in verità non è mai stato così: fu un’intrusione del reale puro”. I termini utilizzati da Deleuze fanno riferimento al dizionario di Lacan. Quest’ultimo, com’è noto, afferma che l’esperienza ha luogo secondo tre modalità: nel registro del simbolico, in quello dell’immaginario e in quello reale. Cosa vuol dire che il 68 non è stato simbolico? Significa, in estrema sintesi, che il 68 non è stato trasgressione della legge, come tutti credono: pensare così il 68 è in realtà un modo per liquidarlo, poiché se ne dissolve la dimensione all’interno della continuità storica e della sua dialettica. Ma non è stato, dice Deleuze, neppure immaginario, e con ciò il filosofo francese prova a disinnescare le altre accuse mosse al 68, il quale sarebbe stato fuga dalla realtà, evasione, confusione, droga etc. , vissuti come unica alternativa alla Legge del padre, quella che sussiste al dominio del simbolico. Ma la fuga nell’immaginario vuol dire la patologia. In breve: o il 68, secondo taluni, è stato simbolico – trasgressione e protesta contro l’ordine costituito – oppure, per tal’altri, una fuga quasi psicotica nell’immaginario. Per bene interpretare il 68, secondo Deleuze, dobbiamo invece guardare alla terza possibilità, al Reale puro. Curiosamente questa definizione del 68, “intrusione del reale puro”, è la stessa che Deleuze stava dando del cinema in quel periodo, che non a caso è l’arte specifica del 68. Il cinema, infatti, è per Deleuze un atto di fede nel reale, dell’esserci del reale. E anche il 68 è fede nel reale, un’affermazione radicale dell’immanenza; tutta la critica del 68, infatti, è rivolta a quella trascendenza – cioè a quel principio della Legge – che in qualche modo annulla la potenza dell’esperienza. In questo senso, alcune espressioni usate da Deleuze acquistano un senso importante anche in chiave etico-politica: “spinozismo dell’inconscio”, “univocità del reale”, vogliono dire riscattare il 68 dalla dimensione della negazione, dall’entropia, dalla fuga nell’immaginario, per vederlo come potenza affermativa. Ma, ancora, cosa vuol dire potenza affermativa? Vuol dire, se vogliamo stare nel linguaggio lacaniano, privilegiare il momento del godimento rispetto a quello del desiderio.
E “godere”, se non sbaglio, è un verbo importante del 68.
Certamente. Se a distanza di 50 anni dovessi dire, con un aforisma, che cosa è stato il 68 direi è stato “rivendicazione del diritto al godimento”, del godimento anche immediato. La lotta delle donne, degli omosessuali, degli operai che contestavano la forma lavoro etc.
La interrompo solo per notare, come tale visione contesti radicalmente la struttura portante dell’esperienza, così come per lo più ci viene tramandata dalla tradizione filosofica. Concorda?
Sì. Difatti, secondo il modello teorico più diffuso, l’esperienza dovrebbe essere struttura edipicamente, sospendendola cioè al principio della Legge, facendo così dell’esperienza sempre un fenomeno di mancanza, di debito. Contro mancanza-debito, contro l’idea di sacrificio, e l’idea di una necessaria rinuncia come fondamento dell’esistenza associata, ecco contro questa idea, secondo me, si scaglia il 68. La stessa critica della merce e della mercificazione, tipica dell’ideologia sessantottarda, è la critica del principio stesso dell’economico nella misura in cui questo ha a fondamento del proprio discorso l’idea di scarsità. Se si tiene presente che la merce è la mancanza fattasi sensibile, allora la dimensione della mancanza è il grande regolatore dello scambio sociale. La critica della merce, a pensarci bene, è una critica della “mancanza”, ed è una critica dell’idea di scarsità, nozione chiave del capitalismo. Quest’ultimo per il 68 è un grande produttore di miseria perché è basato sul principio della scarsità.
Sul piano metafisico, se mi è concesso usare questo termine, tutto ciò mi sembra configuri un’idea di esperienza che non rimanda più, per dirla in modo semplice, ad un piano della trascendenza cui l’esperienza, data la sua contingenza radicale, dovrebbe costitutivamente sempre riferirsi per poter sussistere: l’esperienza è l’assoluto. Mi pare che il discorso, portato alle sue estreme conseguenze, ci conduca fin qui.
Sicuramente il modo in cui il 68 ha pensato l’esperienza sul piano politico-sociale è legato a una certa concezione metafisica dell’esperienza. Lo stesso Deleuze, come abbiamo visto, quando deve definire il 68, parla di uno “spinozismo dell’inconscio” “irruzione del reale puro” etc., insomma cerca delle categorie fortemente speculative. Il tentativo che io stesso ho provato a fare nel Canone minore (Il canone minore. Verso una filosofia della natura, del 2016, è l’ultimo libro di Ronchi ndr) è stato quelli di individuare all’interno del pensiero del ‘900, su cui mi sono concentrato, una linea di pensiero che ho chiamato “minore” e della quale rivendico la connessione profonda con l’ispirazione del 68. Una linea minore che è caratterizzata, come lei diceva, dal porre l’esperienza come assoluto, e cioè dal tentativo di pensare l’esperienza non più come relativa, relativa a un soggetto testimone – quale esso sia – che la organizza, la produce o la costituisce, ma come esperienza emancipata dal riferimento a un polo trascendente che ne sia il fondamento e la giustificazione. Questo lettura dell’esperienza, indubbiamente alternativa rispetto alla proposta mainstream, ha attraversato il ‘900 soprattutto in alcuni filosofi che, come Deleuze, a dispetto della loro fama anche grande, sono rimasti in uno stato di minorità da questo punto di vista. La “linea minore” mira a liberare l’esperienza dal Nulla, cioè dalla categoria fondamentale con la quale, secondo me, il pensiero occidentale della linea maggiore l’ha pensata: quella della negazione. Per questo nel mio libro ho insistito in particolare sulla critica a tre elementi architravi del pensiero maggioritario: contingenza, finitezza e intenzionalità. Tutti e tre descrivono una situazione di mancanza e debito come situazione originaria in cui si inscrive l’esperienza. La mia idea è che il 68 sia stato un tentativo di liberare, per una volta nella storia dell’uomo, l’esperienza umana da queste parole d’ordine. E in questo senso per me il 68 avrà sempre un grande valore emancipatorio. Infatti, a parer mio, l’origine di tutti i dispositivi di potere sta proprio in una interpretazione della condizione umana come mancanza radicale: questi, infatti, funzionano solo se nell’esperienza si inocula la finitezza. Operato questo innesto, si ha poi bisogno di sostenere l’esperienza attraverso un apparato istituzionale che immette nell’esperienza quel sostegno che altrimenti essa, da sola, non avrebbe.
Desiderio, mancanza, debito: questi tre termini descrivono le coordinate di certa antropologia. Contestando queste coordinate, mi pare che il 68 abbia lasciato intravedere un’altra antropologia. Insomma, mi sembra che tale discorso costituisce in sé la premessa per un’antropologia alternativa rispetto a quella “umanistica”.
Nell’ Anti-Edipo di Deleuze si dice che l’essenza del 68 è il desiderio, ma non il desiderio come mancanza ma come affermazione. Il desiderio, in altri termini, deve essere liberato dal suo essere segno di una mancanza e dunque aspirazione a un compimento che non c’è, per diventare pura affermazione di sé. Schematicamente, ci sono due modi per leggere il 68: in maniera umanistica e non umanistica. Cioè vendendolo come l’ennesima rivendicazione del primato dell’umano e dell’affermazione dei principi trascendentali che regolano la sua condotta, oppure come una via di fuga dall’umanesimo, insomma dall’idea che l’uomo costituisca un’eccezione nell’ordine della realtà. Non è un caso che le letture più interessanti che vengono fatte del marxismo in quegli anni sono letture di tipo antiumanistico. Il marxismo si presta sia ad essere letto come il coronamento delle concezione idealistiche e umanistiche, sia come scardinamento di quel modello. Si consideri ad esempio il lavoro di Althusser e il suo tentativo di liberare Marx dal dominio umanistico, di mettere in circolazione un Marx letto con Spinoza etc. Probabilmente un tentativo ermeneutico difficile, quasi impossibile, d’accordo, ma da solo basta per intravedere la doppia possibilità di cui parlavo poco fa.
Una delle questioni più dibattute in questo periodo è il rapporto tra cristianesimo e 68. Li dobbiamo leggere come meri antagonisti?
Guardando in profondità, io credo che ci sia una fortissima tensione cristiana nel 68. Se dovessi indicare una categoria teologica per spiegare il 68 come momento affermativo direi “Incarnazione generalizzata”. Il 68 prova a pensare l’Incarnazione – il farsi uomo di Dio e insieme il farsi divino dell’umano – non però come evento singolare ma in senso, appunto, generalizzato. Non solo, insomma, il caso di un certo individuo di nome Gesù vissuto 2000 anni fa, ma il destino di tutti. È nell’esperienza emancipata dalla Legge che abbiamo la Theosis, la divinizzazione, il diventare come Dio dell’uomo. E se c’è un diventar divino dell’uomo, allora si intravede un superamento della forma umana, poiché le barriere che dividono l’umano dal divino vengono in qualche modo superate. Ripeto, da questo punto di vista, c’è secondo me una vicinanza tra l’esperienza sessantottarda e quella cristiana verificata da tutta una serie di movimenti cristiano-sociali che hanno luogo in quel periodo, e il punto d’intersezione è rinvenibile proprio nell’Incarnazione, non approcciata dal lato della kenosis, dello svuotamento, della radicale finitezza assunta da Dio, ma dal lato della divinizzazione dell’umano.
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