Dal linguaggio alla responsabilità.
Se la questione non fosse così importante, vitale addirittura, eviterei di iniziare con un raccontino sarcastico e tagliente. Ma tant’è, la drammaticità e la tragicità paiono essere le cifre del nostro tempo.
Due pianeti si incontrano in una lontana galassia. Il più anziano si accorge delle preoccupazioni dell’altro e lo incoraggia a parlarne. Il più giovane ammette di essere gravemente malato e di aver appena saputo la causa della sua malattia ritirando le analisi: per questo sta attendendo con ansia l’appuntamento dal medico. Il primo, mettendo a disposizione la sua esperienza, gli chiede quale sia questa causa e la legge sul referto; poi, scioltosi in un sorriso consolatorio accompagnato da una pacca sull’emisfero nord del suo giovane interlocutore, esclama in tono liberatorio: «Non devi preoccuparti. È un virus che ho avuto anche io alla tua età. È fastidioso, invalidante e ti prosciuga tutte le energie, ma vedrai: dura poco e passa da solo. Si chiama Homo Sapiens».
Che l’essere umano e le sue attività siano determinanti per il pianeta sul quale vive e che molte di queste attività comportino la trasformazione proprio di questo pianeta verso una landa desolata e inospitale, inadatta per ogni forma di vita o, almeno per la forma di vita dell’essere umano, sono due giudizi che caratterizzano la nostra epoca, tanto che essa meriterebbe un nuovo nome: Antropocene. In che cosa consiste questo neologismo? Non è una banale ovvietà che gli esseri umani modifichino l’ambiente in cui abitano? Se è così, allora il termine “Antropocene” non rischia forse di essere solo una parola alla moda? Che cosa cerca di mettere in luce? Davvero descrive un’era nuova e inquietante? Merita forse un’attenta riflessione che ne metta in luce aspetti inediti e che suggerisca una diversa prospettiva? Proviamo ad affrontare questi interrogativi.
In qualità di neologismo l’Antropocene, in Italia, venne attestato nel 2016 dalla Treccani che lo definì «l’epoca geologica attuale, in cui l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, viene fortemente condizionato su scala sia locale sia globale dagli effetti dell’azione umana, con particolare riferimento all’aumento delle concentrazioni di CO2 e CH4 nell’atmosfera». Il riferimento ad anidride carbonica e metano presenti nell’atmosfera rivelano l’identità di colui che ha coniato il termine. Storia e mito si intersecano e rimandano alla pausa caffè di un seminario tenutosi a Cuernavaca, in Messico, nel febbraio del 2000. Qui Paul Crutzen, premio Nobel per la chimica da appena quattro anni, scopritore del buco nell’ozono e chimico dell’atmosfera di professione, tra il serio e il faceto, scocciato dal girare in tondo dei suoi colleghi che avevano come unico riferimento concettuale quello dell’Olocene e del relativo equilibrio climatico, sbottò invitandoli ad abbandonate “Olocene” per indicare l’attuale era geologica e a usare “Antropocene”, appunto. La – forse – battuta ebbe successo e risonanza tanto che il termine “Antropocene” venne presto adottato e discusso. Questa la tesi forte: la specie umana è diventata una forza geologica nel senso che gli effetti delle sue attività sono comparabili con quelle dei grandi processi naturali (glaciazioni, spostamenti tettonici, precipitare di asteroidi) che hanno determinato, con alti e bassi, le condizioni di abitabilità del pianeta Terra. Particelle radioattive, tracce chimiche, microplastiche, schianto di satelliti, concentrazione di metalli rari e altri elementi decisamente inquinanti sarebbero ciò che un ipotetico extraterrestre, eseguendo un carotaggio della crosta terrestre, troverebbe nello strato di roccia che corrisponde all’epoca in cui la specie umana ha vissuto sulla Terra. Che di extraterrestre si tratti e non di un nostro pronipote, è dovuto al fatto che le caratteristiche dell’Antropocene non sarebbero compatibili con la vita umana e determinerebbero inevitabilmente l’estinzione della nostra specie. Ecco che cosa ci dice l’Antropocene: gli esseri umani stanno agendo sul pianeta Terra in maniera tanto incisiva, quanto distruttiva e insostenibile, rendendo l’ambiente inadatto alla loro stessa sopravvivenza. Né più né meno di un suicidio di massa. Paura e allarmismo hanno favorito la diffusione del termine Antropocene, ma pare che, non certo paradossalmente, abbiano anche obnubilato la mente di coloro che, essendo la causa del possibile disastro, dovrebbero impegnarsi a trovare una via di uscita.
Con lucidità si può osservare come l’idea di fondo dell’Antropocene, cioè il profluvio di energie spese dagli esseri umani a modificare l’ambiente in cui vivono, non sia poi così nuova. Forse è addirittura ovvia? L’oracolo di Delfi già ammoniva nel 7 AC il tiranno di Corinto Periando che lo avevano consultato prima di intraprendere la ciclopica impresa del taglio con un canale dell’istmo di Corinto. Lo aveva accusato di hybris nei confronti delle divinità e lo aveva invitato a rispettare l’ordine costituito abbandonando ogni velleità ingegneristica con parole stranamente chiare per un oracolo «Nè costruire, né scavare l’istmo. Perché Zeus ha costruito le isole dove pensava fosse giusto». Imprese ciclopiche vennero tentate – ed anche realizzate – con sempre più frequenza grazie all’incremento delle tecniche a disposizione, in un crescendo tale che, in seguito all’uso del carbone nelle rivoluzioni industriali, ci si incominciò a chiedere se tali imprese non fossero decisive, inarrestabili e, magari, dotate di zone d’ombra. L’abate Antonio Stoppani nel 1873 propose di chiamare l’epoca a lui coeva “Antropozoico”. Che l’impatto della hybris fosse congenito al processo evolutivo umano e, in particolar modo, al pensiero cosciente e intenzionale degli esseri umani, fu colto dal geochimico ucraino Vladimir Vernadskij ricorrendo al termine noósphera, ripreso, con una accezione un poco diversa, dal paleontologo e teologo Teilhard de Chardin. Di fatto,la parola “Antropocene”vide la luce solo nel 1973, come voce contenuta nel secondo volume della Great Soviet Encyclopedia durante il primo grande tentativo di piegare la natura alle esigenze della pianificazione e del totale controllo politico ed economico. Parallelamente, il lemma “Antrocene” fu coniato nel 1992 da Andrew Revkin, ma fu “Antropocene”, proposto dal biologo naturalista Eugene F. Stoermer fin dagli anni Ottanta del secolo scorso a spuntarla, fino al suo imporsi con Paul Crutzen.
Il successo di questo termine costituisce anche il suo tallone d’Achille: usato, abusato, snaturato rischia di risuonare a vuoto, privato del suo senso più profondo. Non possiamo nasconderlo: è già una parola alla moda, con il rischio di diventare “vedova presto”, come tutto ciò che si lega alla moda. Il suo utilizzo da parte delle più disparate discipline rischiano di rendere la parola “Antropocene” ambigua o generica. Ma questo è un rischio inevitabile: ogni disciplina è chiamata a interrogarsi su quanto il suo ambito di competenza incida su questo fenomeno; ingegneria, architettura, urbanistica, medicina, chimica, geologia, economia, geografia, statistica e così via. Esiste però un altro pericolo: quello dell’assuefazione. Un pericolo in cui incappa anche la parola gemella di “Antropocene”, cioè “sostenibilità”, parola che vorrebbe indicare quegli strumenti indispensabili a evitare la catastrofe, cioè a rendere compatibili – ammesso e non concesso che sia possibile – il desiderio delle persone a utilizzare le risorse naturali con la sopravvivenza del pianeta Terra. Il mondo del marketing si è già impadronito della nozione di “efficienza” rendendo panacea ciò che rischia di mettere polvere sotto un tappeto già alquanto sporco; di quella di “sostenibile” nell’illusione che un aggettivo basti a rendere il progresso legittimo e auspicabile; e, infine, di quella di “impronta ecologica” sfruttandola per rendere la sostenibilità ecologica nientepopodimeno che… un nuovo bisogno da aggiungere ai tanti già indotti! Oltre che nei saggi e nella collane di libri quali Cartoline dal pianeta Terra della Laterza, di Antropocene si parla attraverso i più disparati linguaggi: dalle poesie di Eugenio De Signoribus al romanzo dell’autore emergente Daniel Albizzati; dai documentari, cominciando da quello omonimo del 2018 – per limitarsi a quello ad oggi disponibile in italiano –, alle conferenze del climatologo Luca Mercalli, del fisico e premio Nobel per la pace Riccardo Valentini e del filosofo della scienza Telmo Pievani, la cui visualizzazione su You Tube raggiunge numeri importanti, a cui aggiungere quello di chi sta leggendo in questo momento – ammesso che non lo abbia già fatto –; dalle serie televisive quali Sapiens. Un solo pianeta di Mario Tozzi, allo spettacolo Sento la Terra girare della comica Teresa Mannino, filosofa di formazione; dal podcast Tracce. L’impronta degli esseri umani sulla Terra di Radio24, alle opere di letteratura più o meno distopica o utopistica o semplicemente impegnata, passando per La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile dell’antropologo e giornalista indiano Amitav Ghosh. Anche chi, parlando del mondo contemporaneo, preferisce evitare il termine, pare riferirsi inesorabilmente ad esso, come Papa Francesco nelle enclicliche Fratelli tutti e Laudato si’. Taccio colpevolmente sulle arti visive, sulla mostra di Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier, sulle istallazioni di Julianne Lutz Warren, Andrea Trimarchi e Simone Farresin e sulle fotografie di Edward Burtynsky.
Come abbiamo notato l’Antropocene dice una eccedenza rispetto all’atavico desiderio degli esseri umani a rendere più ospitale il pianeta sul quale vivono, ma anche a modificarlo per soddisfare i loro bisogni, prima, e a sfruttane le risorse per appagare i loro desideri, poi. L’uso del fuoco da parte dei primi agricoltori al fine di ampliare i terreni coltivabili, non può essere paragonato al carbone bruciato durante le rivoluzioni industriali, né ai residui radioattivi seguiti agli esperimenti atomici in un crescendo che va definito. I criteri che contraddistinguono le azioni umane tipiche dell’Antropocene sono i seguenti: incisività, rapidità, definitività, irreversibilità, complessità e autoreferenzialità. Essi non sono, purtroppo, così chiari e, men che meno, quantificabili, eppure suggeriscono aspetti rilevanti: quanto una nostra azione incide nel profondo sull’ambiente circostante? Quanto rapidamente produce un cambiamento? Tale cambiamento può o meno essere colmato dai normali cicli naturali? Esiste un’azione uguale e contraria capace di tornare allo stadio precedente? Quali conseguenza esso può avere sui diversi sistemi ambientali? ovvero, se il battito di ali di una farfalla in Asia può provocare un uragano in America, che cosa può provocare un uso massiccio di fertilizzanti chimici? L’azione compiuta è forse finalizzata alla mera protezione di un’altra azione tipica dell’Antropocene?
Questi interrogativi danno spessore al termine “Antropocene”, termine che dice qualcosa anche sull’attuale situazione di disorientamento epocale in cui viviamo. Il secolo breve doveva sfociare in una Fine della storia, per dirla con l’interpretazione che la vulgata ha dato al libro del politologo Francis Fukuyama, dai tratti quasi idilliaci, confermati anche dal riferimento a un rassicurante “villaggio globale”. Crisi finanziarie, educative, climatiche, demografiche unite a guerre mondiali a pezzi e migrazioni – tutti moderni cavalli dell’Apocalisse –, hanno scosso le fondamenta del nostro fragile villaggio globale e hanno gettato incertezza sull’eone nel quale viviamo. E, si sa, la prima cosa per vincere l’incertezza è darle un nome. “Antropocene” è forse troppo evanescente, se è stato accompagnato, per chiosarlo, spiegarlo, metterne in luce ora le cause, ora le conseguenze, ora alcune peculiarità, da denominazioni più o meno esotiche quali Plantationocene, Urbanocene, Wastocene, Capitalocene, Plasticocene, Anthrobscene, Misanthropocene, Eremocene, Chthulucene, documanità, infosfera.
Di fronte a questo torrente in piena da cui rischiamo di essere travolti – uso una metafora tratta dai cambiamenti climatici a cui la regione in cui vivo (Liguria) è particolarmente sensibile – vale la pena soffermarsi a riflettere. Mi limito a qualche spunto. L’Antropocene dice davvero qualcosa di nuovo e importante. Nondimeno è profondamente ambiguo: criticando l’azione umana sul pianeta Terra finisce per esaltarla e, mostrandone gli effetti, pare umiliarla e condannarla senza appello. A fare qualcosa deve essere l’essere umano che ha combinato il disastro, ma il disastro consiste essenzialmente il suo agire (sconsiderato). Inoltre, ha a che fare con una dicotomia ormai superata tra natura e cultura; oscilla tra il pessimismo dell’agire delle persone e l’ottimismo nella capacità di un loro riscatto; risulta incapace di distinguere nettamente le cause dagli effetti per via della complessità del sistema in cui si inseriscono; auspica una diversa giustizia rispetto a quella attuale, faticando a trovare alternative; vorrebbe descrivere, ma si ritrova a esprimere giudizi di valore; sancisce una inevitabilità degli eventi, ma chiama ancora a raccolta per porre un rimedio che potrebbe risultare paradossalmente peggio del male.
Eppure vivere nell’Antropocene non deve spaventarci, né paralizzarci. La deresponsabilizzazione e il senso di impotenza ne aggravano gli effetti e lo rendono una profezia millennarista che si auto-avvera. Il senso di spaesamento che caratterizza coloro che, pur restando nel proprio ambiente, non lo riconoscono più tale, è stato chiamato “solastalgia” dal filosofo ambientalista australiano Glenn Albrecht. E sempre di più, ben oltre il numero dei migranti, sono coloro che faticano a riconoscere il loro habitat come tale. Lo sconforto per un destino già scritto è il modo migliore per l’autocompiacimento. La vera urgenza coincide con ciò che più è importante: spronarci verso una nuova responsabilità. Dopotutto gli esseri umani si differenziano dagli animali non tanto per capacità fisiche; anche quelle legate al ragionamento e al calcolo costi-benefici sembrano avere una mera differenza di grado sulla medesima scala; ciò che caratterizza gli esseri umani rispetto agli altri viventi è rendere ragione di ciò che fanno. Una responsabilità così intesa comporta presa di coscienza, empatia verso la realtà tutta, scelte audaci. E’ una responsabilità individuale e collettiva, impegnata a rendere giustizia anche per chi non ha voce, come gli esseri animati, ma anche per l’ambiente nella sua totalità e per chi non ha ancora voce, quali coloro che devono ancora nascere. Una responsabilità, insomma, verso un bene comune i cui confini non sono mai stati così dilatati: oltre i confini della propria comunità, della propria nazione, sotto la crosta terreste, nel fondo dei mari, oltre l’atmosfera, nei confronti della natura e di tutti i suoi abitanti, di chi non ha voce, verso le generazioni future. Non si tratta di augurarci un’estinzione rapida – magari indolore cedendo per l’ultima volta all’hybris –, considerandoci dei virus, quanto di agire all’altezza di noi stessi. Forse il passaggio dall’ego-centrismo all’eco-centrismo è condizione sufficiente, ma non necessaria: basterebbe fossimo più umani.
Ho iniziato con una raccontuccio, termino con una battuta. L’Antropocene è l’epoca in cui antropizzare l’ambiente comporta rinunciare all’antropolatria con il fine non di un “preservare” estetizzante, ma di un “consegnare” responsabile.