DI ANGELO TUMMINELLI
Riscoprirsi fragili. La condizione precaria dell’esistenza
La situazione inedita nella quale tutti siamo piombati da un momento all’altro ha suscitato in ciascuno profonde inquietudini spirituali oltre che un brusco cambiamento dei ritmi e dello stile di vita: improvvisamente ci siamo sentiti privati di ogni libertà di azione e trincerati dentro le mura delle nostre personali insicurezze. Ciò ha spinto ciascuno ad interrogarsi seriamente su stesso e sul mondo maturando la consapevolezza della precarietà esistenziale in cui si trova da sempre l’umanità tutta. Nell’arco di poco tempo le certezze di onnipotenza insieme ai deliri di perfezionismo sono crollati rivelando la natura transeunte ed effimera della nostra permanenza sul mondo; abbiamo sperimentato la pochezza, ci siamo sentiti impotenti di fronte ad una calamità incontrollabile e, questa volta, abbiamo condiviso tutti insieme in modo globale questa situazione. In una parola con l’avvento del Coronavirus ci siamo riscoperti fragili: non che prima non lo fossimo, ma le nostre fragilità adesso sono state messe terribilmente a nudo. Ciascuno ha avuto l’occasione di incontrarsi direttamente con la propria natura, di scontrarsi con la propria precarietà riscoprendo il valore dell’esistenza come una pura possibilità di fronte all’incerto procedere del dinamismo cosmico. In qualche modo, il Coronavirus ha favorito la riscoperta pubblica della nudità umana a dispetto di tutte le propagande e le narrazioni che continuano a descrivere l’essere umano come un essere invincibile e capace di oltrepassare ogni sfida. In realtà, per dirla con Kierkegaard o Sarte, la natura umana si è adesso rivelata come pura possibilità, come evento miracoloso dell’essere che sfida continuamente il nulla e la morte. L’essere possibile è l’essere che si affaccia al mondo come un miracolo prezioso ma che richiede di essere custodito e coltivato per rinnovare la propria presenza. Così, di fronte al diffondersi della pandemia, di fronte all’aggravarsi del numero delle vittime e di fronte alle sempre più stringenti limitazioni, gli esseri umani stanno avendo la possibilità di riscoprire la propria esistenza come precaria, continuamente passibile di fine e di morte. Nella tragedia questa possibilità rimane un dono perché restituisce il significato autentico della vita umana: perché fragile essa è preziosa, perché precaria essa richiede di essere gustata e goduta in ogni suo attimo.
Esposti alla sofferenza. La domanda su Dio
Le notizie a cui si è esposti ogni giorno suscitano sempre di più un senso di smarrimento e di comune sconforto: aumentano i contagi, aumentano i sintomi, aumentano i lutti. Ciascuno si sente immediatamente portato nel cuore stesso della sofferenza là dove si sperimenta il respiro affannato della paura e della morte. La morte per soffocamento, spesso causata dal Coronavirus, diviene simbolo dell’anelito umano alla vita e alla trascendenza, del desiderio di continuare a vivere nonostante tutto. E tuttavia, nonostante questo conatus vivendi, la persona è ricondotta nel baratro della sofferenza; nessuno ne può sfuggire. Ci si sente irrimediabilmente sopraffatti dall’incombenza del nulla. Ciò mostra quella che, secondo il filosofo Heidegger, è la direzione naturale dell’uomo verso la morte ma rivela anche il miracolo della vita come possibilità unica nel mistero del processo cosmico. Di fronte al senso di soffocamento che invade l’anima in queste faticose giornate di quarantena, molti si pongono la domanda del “perché” chiamando in causa l’esistenza stessa di Dio. Indubbiamente in ciascuno è ridestato il sentimento del mistero, l’empatia di qualcosa che risulta incomprensibile alla ragione ma che tuttavia si percepisce come presente e vicino. Torna ancora una volta la drammatica domanda di Giobbe: “dove sei Dio dinnanzi a tutto questo? perché lo permetti?” Non vi è risposta se non nell’atteggiamento di chi si affida senza pretendere una soluzione immediata al problema. Non si può neanche spiegare questo male (come è stato fatto ad esempio per il dramma di Auschwitz) come conseguenza della libertà umana perché un virus non dipende, almeno direttamente, dalle scelte e dalle azioni dell’essere umano. Il filosofo Hans Jonas ha giustamente scagionato Dio di fronte all’accusa di non essere intervenuto contro lo sterminio della Shoah sostenendo che Dio ha lasciato l’uomo libero di agire rischiando di mettere in repentaglio il suo stesso destino. Ma il virus è un male naturale: e allora dov’è Dio? Il senso di un mistero non può essere svelato ma richiede soltanto di essere accolto nella sua incomprensibilità. L’atteggiamento di fronte ad una siffatta calamità deve essere quello di chi rinuncia a trovarne una ragione teologica affidandosi tuttavia al mistero di un amore che ha saputo vincere la morte.
Libertà interiore e ritorno all’essenziale
Piombati tutti improvvisamente nella quarantena, ciascuno ha potuto fare esperienza di sé stesso tornando a dialogare con la propria interiorità profonda. In questo senso, la pandemia sta rappresentando un monito morale che richiama in ciascuno la propria responsabilità nei confronti di sé stessi e del mondo. Privato della libertà di azione, di circolazione e di scambio relazionale, ciascun uomo è chiamato allora a scoprire la propria libertà interiore nella quale si muovono orientamenti spirituali, desideri e paure che richiedono di essere disciplinate e ricondotte ad un ordine personale. La quarantena deve allora divenire un tempo di discernimento interiore in cui ciascuno può mettere ordine alla propria esistenza maturando scelte importanti ed esprimendo con esse la massima libertà individuale. Stabilire un ordine esistenziale significa anche assegnare le giuste priorità alle cose e alle relazioni: in tempo di crisi si è costretti a ritornare a ciò che è veramente essenziale nella vita quotidiana. Vanno riscoperti anzitutto gli affetti nella loro inesauribile potenzialità di senso e di significato per l’esistenza. Va riscoperto il sapore delle piccole cose, di una organizzazione della giornata che tenga conto di tempi dilatati e di spazi ristretti. Occorre ridimensionare le aspettative programmatiche scoprendo il gusto dei piccoli gesti del quotidiano. In questa situazione inedita siamo tutti costretti a tornare all’essenziale, a gustare il sapore del pane fatto in casa e a eliminare tutto ciò che è superfluo perché non ha più senso bramare qualcosa di non indispensabile. Non ha più senso pensare in grande, offendere il vicino, non ha più senso invidiare i colleghi; in questa situazione occorre riscoprirsi semplici, nudi e poveri quali siamo nella nostra avventura nel mondo. Con questa consapevolezza potremo allora santificare la nostra quotidianità scoprendo in essa non solo la più vivace libertà interiore ma anche la possibilità di un incontro con l’eterno.
Una nuova percezione dello spazio e del tempo
Nella condizione di quarantena ciascuno è costretto a riarticolare e rinnovare il proprio rapporto con lo spazio e con il tempo. Lo spazio si restringe drammaticamente nel chiuso di una camera e il tempo si dilata nell’incessante procedere di ore da riempire e da valorizzare. Nello spazio si realizza il nostro incontro con le cose e con le persone. Così l’imporsi di una distanza necessaria nel rapporto con gli altri può costruire un rinnovato senso delle relazioni interpersonali: la distanza è un valore perché non omologa, non assimila, non identifica ma offre la possibilità di guardarsi reciprocamente negli occhi; solo nella distanza si realizza la relazione autentica e si scopre il volto unico dell’altro. Nella distanza riconosciamo l’altro come un Tu, per dirla con Buber o Levinas, ovvero come un essere personale che mi chiama ad una responsabilità etica. Attraverso la distanza possiamo sentirci diversi per condividere un cammino comune e un’unica meta. Rispetto alle cose, la nuova percezione dello spazio ci offre una nuova possibilità nell’utilizzo dei beni. Va via tutto ciò che non è indispensabile e viene riscoperta l’importanza degli oggetti quotidiani come strumenti non scontati ma fondamentali per la risoluzione dei problemi. Con una nuova prospettiva sullo spazio e sul tempo la quarantena di questi giorni smaschera l’ovvietà ridestando il senso di stupore di fronte alle piccole ma fondamentali realtà del quotidiano. Anche il tempo della quarantena si percepisce in modo diverso: il tempo è il rapporto con noi stessi ed esso sembra dilatarsi quando è sottratto alla routine e alla frenesia del lavoro. Come avrebbe detto Agostino, nel tempo scopriamo quell’interiorità nella quale abita Dio stesso e in esso torniamo a percepire il senso dell’assoluto e del mistero. Se è vero, come sostiene il pensatore ebreo Heschel, che dal tempo si apre una breccia verso l’eternità, i giorni della quarantena in cui il tempo a disposizione sembra dilatato diventano l’occasione per scoprirsi eterni e unici, preziosi perché depositari del dono della vita. Il tempo è il bene che mostra la vita come dono, come qualcosa di prezioso affidato alle nostre cure e alle nostre attenzioni. In questo tempo, allora, ciascuno può e deve evitare lo spreco mettendo a frutto ogni istante come possibilità di incontro con l’assoluto.
Implicazioni etiche ed economiche
Il dilagare della pandemia sta portando con sé una serie di implicazioni di carattere etico ed economico: anzitutto, da un punto di vista morale, la pandemia richiama la comune responsabilità umana di fronte ai propri simili e all’intero genere umano. Un singolo comportamento personale può avere conseguenze terribili provocando la diffusione del contagio e l’aumento delle vittime. Ciascuno, pertanto, deve sentirsi corresponsabile di tutti gli altri in un’ottica di reciprocità e condivisione. Corresponsabilità è anche capacità di fermarsi e di restare indietro là dove ciò venga richiesto: è capacità del nascondimento e dell’umiltà. Così, in questa difficile situazione a ciascuno è assegnato un compito specifico: medici e operatori sanitari sono in prima linea nella lotta contro la malattia, agricoltori e operatori del settore alimentare concorrono al soddisfacimento dei bisogni essenziali; a tutti gli altri è richiesto un grande sacrificio: quello di rimanere in casa per evitare il propagarsi del contagio. Anche rimanere fermi è risposta ad una responsabilità: ciascuno deve contribuire con tutto sé stesso per fronteggiare la malattia comune. Nessuno escluso: anche rimanere a casa, magari continuando a lavorare al pc, è segno di una corresponsabilità e di una comune partecipazione politica. L’altra dimensione etica ridestata dalla pandemia è l’empatia, ovvero la capacità di sentire il sentimento altrui e di condividerlo con tutta l’esistenza. Vedendo le immagini delle terapie intensive non si può essere insensibili e ciascuno riscopre questa potenzialità etica della condivisione del vissuto altrui. L’empatia è un grande sostegno nelle situazioni di emergenza ma diventa una grande possibilità nella vita normale di tutti i giorni quando, presi dagli impegni o dai ruoli, non siamo più in grado di immedesimarci nel sentimento dell’altro incentrando, piuttosto, tutta la realtà su noi stessi e sulla nostra percezione.
Anche l’economia, con il Coronavirus, sta cambiando e occorre operare una revisione complessiva dei saperi: l’economia liberista incentrata sul libero scambio delle merci senza limiti imposti dagli stati sta mostrando i suoi limiti e viene irrimediabilmente sostituita da una economia direttamente gestita dallo Stato che, in emergenza, può requisire i privati per metterli al servizio del bene comune. L’economia è chiamata in causa in questa triste faccenda: essa non può e non deve più costituirsi come fine dell’agire sociale ma va riscoperto come semplice strumento utile a garantire il soddisfacimento dei bisogni materiali della persona. Tutti i sistemi finanziari stanno saltando, le borse crollano: non è la finanza che regola la vita ma la vita, con tutte le sue istanze materiali e spirituali, che deve rinnovare nell’economia una tensione etica e politica.
I limiti della scienza e la postura spirituale dell’affidarsi
Le cause del Coronavirus risultano incerte come anche le strategie terapeutiche volte a contrastarlo: i medici non hanno ancora capito come si sia generato e come abbia assunto presto una forma letale per l’essere umano. Anche le terapie risultano ad oggi ancora inefficaci e chi guarisce lo fa perché sviluppa autonomamente un sistema di anticorpi capace di contrastare il virus. Di fronte a ciò le promesse dello scientismo sembrano svanire e si rivelano tutti i limiti del sapere umano. Se da un lato bisogna trovare con gli strumenti della ricerca medica possibili antidoti al virus, il suo insorgere e il male esistenziale che esso sta causando nelle società rimane un mistero insondabile. Si può trovare una causa del fenomeno ma il suo senso rimane indecifrato. Alla ricerca spasmodica ed esasperata di una motivazione oggettiva alla base del fenomeno, occorre sostituire un atteggiamento di ragionevole accoglienza e di speranza nelle potenzialità della scienza. Esse possono essere utili ma mai definitive perché l’incomprensibile mistero della vita e della morte rimane l’approdo ultimo di ogni esistenza.
Di fronte al limite della stessa scienza, occorre allora assumere un atteggiamento di umile accettazione di quanto sta accadendo; occorre assumere la postura spirituale dell’affidarsi: il che non significa rinunciare a contrastare il virus, a combatterlo con gli strumenti della scienza, ma significa piuttosto lasciarsi interrogare da un mistero più grande dell’essere umano, un mistero trascendente che ci abita e nel quale è possibile trovare un rifugio.