Dialoghi

L’Europa e il “totalitarismo” #1: Danilo Breschi

Scritto da Damiano Bondi

Apriamo in questa sezione una serie di interviste relative alla recente risoluzione del Parlamento Europeo, datata 19 ottobre 2019, in cui vengono avvicinati nazi/fascismo e comunismo nel loro essere distanti dai valori propri dell’Unione Europea. Questa risoluzione ha determinato un ampio, aspro e ricco dibattito anche in Italia, che ricorda almeno in parte quello che seguì alla non inclusione delle “radici cristiane” nella Costituzione Europea. Cosa significa essere europei? Vi sono valori positivi da promulgare o soltanto distanze da prendere? Il primo intervistato è Danilo Breschi, docente di storia delle dottrine politiche presso l’Università degli Studi Internazionali di Roma e direttore della rivista “il Pensiero Storico”. Lo ringraziamo per la disponibilità e rimandiamo volentieri al suo blog per chi volesse approfondirne il pensiero. Breschi è sostanzialmente favorevole alla risoluzione.
Di parere complessivamente diverso sarà invece il prossimo intervistato, Andrea Zhok, docente di filosofia morale presso l’Università degli Studi di Milano. A tutti gli intervistati verranno poste le medesime tre domande.

  • Alla risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre, lei cosa avrebbe votato? Perché? 

Il documento è molto articolato e si muove su più livelli, talvolta sovrapponendoli e confondendoli. Per poter rispondere adeguatamente occorre anzitutto distinguere almeno due piani, quello geopolitico e quello storiografico. Sotto il primo piano è evidente che la risoluzione nasca da una richiesta dei Paesi dell’Est Europa divenuti negli ultimi quindici anni membri dell’Unione. Sono nove gli Stati europei che, dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia, hanno posto l’anticomunismo in Costituzione e che prevedono persino il reato di «apologia di comunismo»: Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Romania, Bulgaria, Lituania, Lettonia ed Estonia. Questo spiega anche i passaggi maggiormente discutibili della risoluzione, là dove si espone con giudizi storici e politici che riguardano uno Stato esterno all’Ue, ossia la Russia, con argomentazioni come le seguenti: «la Russia rimane la più grande vittima del totalitarismo comunista e […] il suo sviluppo in uno Stato democratico continuerà a essere ostacolato fintantoché il governo, l’élite politica e la propaganda politica continueranno a insabbiare i crimi del regime comunista e ad esaltare il regime totalitario sovietico» e «invita pertanto la società russa a confrontarsi con il suo tragico passato»; oppure che il Parlamento europeo «è profondamente preoccupato per gli sforzi dell’attuale leadership russa volti a distorcere i fatti storici e a insabbiare i crimini commessi dal regime totalitario sovietico; considera tali sforzi una componente pericolosa della guerra di informazione condotta contro l’Europa democratica allo scopo di dividere l’Europa e invita pertanto la Commissione a contrastare risolutamente tali sforzi». Su questi punti si può, credo si debba, riflettere attentamente, esprimendo tutte le proprie riserve, soppesando vantaggi e pericoli di esternazioni e raccomandazioni ufficiali di tal fatta. Ma qui siamo, appunto, sul piano geopolitico e diplomatico.

In generale, ritengo sia buona prassi che la politica non scriva la storia. In tal senso è senz’altro discutibile anche il punto 18, in cui si «osserva la permanenza, negli spazi pubblici di alcuni Stati membri, di monumenti e luoghi commemorativi (parchi, piazze, strade, ecc.) che esaltano regimi totalitari, il che spiana la strada alla distorsione dei fatti storici circa le conseguenze della Seconda guerra mondiale, nonché alla propagazione di regimi politici totalitari». È insomma fondamentale evitare di inoltrarsi in sentieri che conducono a Ministeri della Verità di orwelliana memoria. Ciò detto, è altrettanto importante che nella costruzione di una casa comune ci siano delle fondamenta condivise. In una parola, l’antitotalitarismo è ciò che può senz’altro mettere d’accordo (o meglio: dovrebbe) tutti gli Stati membri dell’Ue. Di qui il titolo della risoluzione, che trovo del tutto pertinente: Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa, così come i due passaggi in cui, da un lato, si afferma che «occorre mantenere vivo il ricordo del tragico passato dell’Europa, onde onorare le vittime, condannare i colpevoli e gettare le basi per una riconciliazione fondata sulla verità e la memoria», dall’altro si ribadisce che «la memoria delle vittime dei regimi totalitari, il riconoscimento del retaggio europeo comune dei crimini commessi dalla dittatura comunista, nazista e di altro tipo, nonché la sensibilizzazione a tale riguardo, sono di vitale importanza per l’unità dell’Europa e dei suoi cittadini e per costruire la resilienza europea alle moderne minacce esterne». D’altronde, non dobbiamo dimenticare che dal 2012 il Parlamento europeo ha istituito la Giornata europea dei Giusti per commemorare coloro che si sono opposti con responsabilità individuale ai crimini contro l’umanità e ai totalitarismi. Si tratta dunque di una linea perseguita da tempo.

L’ex monumento di Stalin a Praga

Ursula von der Leyen, presidente neoeletta della Commissione europea, ha di recente dichiarato che «libertà, uguaglianza, democrazia, rispetto della dignità umana, dello Stato di diritto e dei diritti umani, oltre ad essere i valori comuni dell’Ue e costituire le nostre stesse fondamenta, racchiudono il significato autentico dell’Unione». Ha inoltre aggiunto che «dovremmo essere fieri del nostro stile di vita europeo in tutte le sue forme e dimensioni e dovremmo costantemente preservarlo, proteggerlo e coltivarlo», per precisare poi che «la migliore descrizione dello stile di vita europeo è racchiusa nell’articolo 2 del Trattato sull’Unione Europea» e che, «indipendentemente da dove veniamo e da dove viviamo nell’Ue, questo evoca un diritto ed un dovere per tutti noi». Ha poi concluso ricordando come lo stile europeo «si è affermato a caro prezzo a fronte di grandi sacrifici e non dovrebbe mai essere dato per scontato, perché non è né immutabile, né garantito per sempre». Quest’ultima sottolineatura ci ricorda che non c’è futuro senza passato. È sotto questo profilo che si dovrebbe apprezzare la risoluzione approvata lo scorso 19 settembre ad ampia maggioranza (535 voti a favore, 66 contro e 52 astenuti) dal Parlamento europeo di Strasburgo. E subito sono scoppiate le polemiche, ma perché?

Il Parlamento Europeo

Qui ci trasferiamo sul piano storiografico. Nel testo della risoluzione si sottolinea come «i regimi nazisti e comunisti hanno commesso omicidi di massa, genocidi e deportazioni, causando, nel corso del XX secolo, perdite di vite umane e di libertà di una portata inaudita nella storia dell’umanità». Nel testo si legge anche che il «patto Molotov-Ribbentrop, e i suoi protocolli segreti, dividendo l’Europa e i territori di Stati indipendenti tra i due regimi totalitari e raggruppandoli in sfere di interesse, ha spianato la strada allo scoppio della Seconda guerra mondiale». La risoluzione, inoltre, «invita tutti gli Stati membri dell’Ue a formulare una valutazione chiara e fondata su principi riguardo ai crimini e agli atti di aggressione perpetrati dai regimi totalitari comunisti e dal regime nazista».

Immagini della sigla del patto Molotov-Ribbentrop

Dunque, ad essere oggetto di polemiche e contestazioni è il fatto che questo voto dell’Europarlamento in sostanza equipara il comunismo al nazismo. Qualcuno, felicemente ignaro di storiografia, ha parlato di revisionismo storico e politico. In realtà. già negli anni Trenta numerosi esuli russi, sia conservatori di destra sia antistalinisti di sinistra, rimarcavano le forti analogie tra nazismo e comunismo. Furono poi, tra gli altri, Hannah Arendt dal lato filosofico e storico, Zbigniew Brzezinski e Carl J. Friedrich dal lato politologico, a mettere a fuoco la categoria di “totalitarismo”, avversata per molto tempo dalla storiografia marxista e filocomunista proprio perché denigrava l’esperimento sovietico e ne negava la bontà e validità quale prospettiva di emancipazione degli oppressi di tutto il mondo. L’uso del termine “totalitarismo”, come categoria comprensiva del Terzo Reich e dell’Urss, fu così derubricata al rango di propaganda filoamericana e filocapitalista, accusata di essere più o meno direttamente finanziata dalla Cia per gettare discredito sul movimento comunista internazionale. Sotto questo profilo è perciò apprezzabile quanto emerge dalla risoluzione del Parlamento europeo, anche perché trovo che sia la strada per migliorare una reciproca conoscenza e quindi il dialogo interculturale tra l’Ovest e l’Est dell’Unione europea. Nella parte occidentale l’Europa ha conosciuto solo il dominio totalitario di destra, mentre nella parte centro-orientale, da Berlino in là, hanno conosciuto, e per un periodo più lungo, anche quello di sinistra. Nazismo e comunismo sono le due facce differenti della stessa medaglia totalitaria. Diciamo che, culturalmente, la risoluzione del 19 settembre scorso è il riconoscimento postumo delle posizioni di grandi scrittori e intellettuali politicamente impegnati a favore della libertà e della giustizia come George Orwell, Albert Camus e Nicola Chiaromonte. Per tutti questi motivi, e fatte salve alcune riserve, il mio giudizio sulla risoluzione è complessivamente favorevole.   

Nazismo e comunismo sono le due facce differenti della stessa medaglia totalitaria

  • Cosa l’ha colpita di più del dibattito seguito al voto?

Mi ha colpito il fatto che le critiche non si siano concentrate sull’uso politico della storia, senz’altro opinabile, anche se dobbiamo riconoscere, con senso altrettanto storico, quanto sia stato praticato in ogni epoca, da ogni tipo di regime politico, autoritario come democratico. Piuttosto mi ha colpito che ad aver sollevato le più accese polemiche sia stata l’equiparazione tra nazismo (fascismo) e comunismo. A dire il vero, mi ha stupito solo in parte. Mi ha deluso, piuttosto. È stata l’ennesima conferma di quanto duratura e pervasiva, e pertanto ancora influente, sia stata la stagione dell’egemonia marxista sulla storiografia italiana. Una storiografia che, anche quando non espressamente politicizzata, si è mostrata comunque indulgente, con gradazioni differenti, nei confronti della storia del comunismo sovietico e mondiale, al fine di preservare un Partito comunista italiano che doveva risultare la forza democratica più avanzata nella politica italiana, quantomeno dai tempi della Resistenza in poi. Eppure, anche da sinistra, si sarebbe oggi dovuto argomentare diversamente, cogliendo un’importante occasione offerta dalla risoluzione del 19 settembre scorso. Se l’antifascismo fu il collante ideale/ideologico e il comune denominatore evocato (e direttamente posto, vedi disposizioni transitorie e finali, ad esempio) quale uno dei fondamenti legittimanti la Costituzione repubblicana e il nuovo corso democratico nell’Italia uscita dalla dittatura fascista, perché meravigliarsi che l’anticomunismo lo sia stato per la (ri)fondazione democratica degli Stati nazionali usciti dal giogo sovietico?

Se l’antifascismo fu […] il comune denominatore evocato quale uno dei fondamenti legittimanti la Costituzione repubblicana e il nuovo corso democratico nell’Italia uscita dalla dittatura fascista, perché meravigliarsi che l’anticomunismo lo sia stato per la (ri)fondazione democratica degli Stati nazionali usciti dal giogo sovietico?

Allargandosi ad Est, l’Unione europea non poteva non affiancare all’antifascismo e all’antinazismo anche l’anticomunismo. Prima o poi sarebbe stato richiesto, anche in funzione antirussa, per marcare e marchiare un passato che non vogliono rivivere. E qui però la risoluzione ha stuzzicato tutta la vecchia allergia europeo-occidentale, soprattutto degli ambienti intellettuali, italiani in primis, nei confronti dell’anticomunismo. Teniamo poi conto che la risoluzione Ue ribadisce la condanna delle tesi negazioniste circa lo sterminio nazista degli ebrei e mette in guardia dai rigurgiti antisemiti e razzisti che agitano tutta Europa, e quella orientale in primo luogo. Non c’è dunque alcun intento di denigrare una parte per riabilitarne un’altra.

Infine, come ha fatto notare Giuseppe Girgenti, bisogna tener conto del fatto che, in occasione delle commemorazioni per l’inizio della seconda guerra mondiale (settembre 1939), «Putin sta puntando molto sull’orgoglio nazionale russo, sulla vittoria e sul contributo dato da Stalin (e da circa venti milioni di morti) alla sconfitta della Germania nazista. Credo sia proprio questo – prosegue Girgenti – che gli Stati europei non possono accettare, come di fatto non l’accettarono nell’immediato dopoguerra: per tutte le nazioni europee dell’est, il 1945 non fu la liberazione, ma l’inizio di una nuova occupazione; per la stessa Germania non fu la liberazione, ma la sconfitta e l’inizio della divisione dello Stato in due; per la Gran Bretagna di Churchill fu l’inizio della “cortina di ferro”, figuriamoci per la Spagna di Franco. Solo le nazioni liberate dagli Stati Uniti, cioè l’Italia (con lo sbarco in Sicilia del 1943) e la Francia (con lo sbarco in Normandia nel 1944), che non hanno avuto l’Armata Rossa sul proprio territorio, possono permettersi di seguire la posizione attuale di Putin».

Lo sbarco in Sicilia
  • Pensa che si riuscirà mai ad arrivare a una visione storica condivisa su questi temi in Italia?

Ammesso e non concesso che sia ancora possibile avere in Italia un minimo comun denominatore di cultura politica nazionale, l’adesione all’antitotalitarismo vorrebbe dire un superamento (nel senso dell’hegeliana Aufhebung, che è un togliere mettendo via, dunque un andare oltre conservando) di quello spirito da guerra civile che attanaglia da troppi decenni la mentalità collettiva e soprattutto il dibattito pubblico nostrano. Un fiume carsico che periodicamente erompe in superficie e allaga qualsiasi confronto di idee e di proposte, inasprendolo all’inverosimile fino a fiaccarlo e affogarlo. E così noi italiani procediamo col collo torto, rivolti all’indietro, e la contemporaneità ci investe e travolge senza che possiamo nemmeno tentare di reagire. Pertanto la mia risposta a questa domanda va più nel senso dell’auspicio, perché ancora troppi interessi ben robusti e corporati lucrano su questo tipo di fratture, e ne risente soprattutto in termini di compattezza e dinamismo la politica estera di uno Stato che, come appunto l’Italia, ne avrebbe bisogno come non mai.

Danilo Breschi, l’intervistato

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Damiano Bondi

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