Lo scorso ottobre, il disegno di legge che prende il nome dal deputato Pd Alessandro Zan è stato “congelato” in Senato dall’esito di una votazione a scrutinio segreto.
Il testo comprendeva Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità.
In Senato, dunque, hanno prevalso le forze politiche strenuamente avverse al ddl. Decorsi sei mesi dalla votazione, i suoi fautori potranno presentare un testo differente. I partiti politici contrari allo Zan hanno proposto una lettura marcatamente ideologica del testo, tanto da scorgervi persino l’esatto contrario del significato di quanto vi si afferma e si esclude. Sebbene la pluralità delle interpretazioni di un testo normativo sia senz’altro legittima (segnatamente in Parlamento), resta vero che il filtro ermeneutico costituito da un’ideologia conduce a interpretazioni che appaiono forzate a chi legga serenamente – per quanto possibile – i laconici articoli del ddl. Qui, come altrove, ogni ideologia funge da specchio deformante. Ciò vale con riferimento alle ideologie di matrice omofobica come, di converso, a quelle ascrivibili alle componenti ideologiche dei gender studies/theories.
A tutt’oggi, in Italia manca una legge che sanzioni esplicitamente sul piano penale le fattispecie di reato correlate all’omotransfobia, a differenza di gran parte dei Paesi europei, compresa quell’Ungheria di Orban che – certo – non si segnala riguardo alla tutela dei diritti civili.
Nel contrapporsi al ddl Zan, la Lega ha redatto un testo alternativo (e ancora più laconico). Esso si limitava a prevedere delle “aggravanti” per i reati fondati sull’omotransfobia e rimuoveva il riferimento ai reati nei confronti di persone portatrici di disabilità, in quanto ritenuto fuori contesto.
Tra l’altro, non si è riflettuto abbastanza sui “motivi” che hanno indotto gli studiosi (prima ancora che il legislatore) a rubricare quale “fobia” l’origine degli atteggiamenti discriminatori o violenti sanzionati dallo Zan. Visti in modo superficiale, essi sembrano denunciare, piuttosto, un’avversione incontrollata, in quanto radicata nell’àmbito delle pulsioni. Per lo più, una fobia non si manifesta in un’avversione siffatta, bensì in un complesso di comportamenti volti ad evitare l’oggetto che la suscita, e tali da configurare ciò che psicologi e psichiatri denominano “strategia di evitamento”.
Inoltre, la Lega ha rigettato sin dal principio il riferimento del testo all’“identità di genere”. Espressione, questa, ormai accettata dalla comunità scientifica, in quanto designa un esito possibile dei processi identitari della persona. In particolare, è stata contestata la plausibilità di una «identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione» (art. 1 d).
Gli avversari del ddl Zan hanno affermato che la “percezione di sé” non è un criterio adeguato per l’ascrizione della persona al genere. Si può osservare, comunque, che l’identità di genere si fonda proprio sulla percezione di sé, intesa non come un’impressione estemporanea, bensì quale consapevolezza che va consolidandosi nel corso dell’età evolutiva.
Forse, lo spirito della lingua tedesca ci può indurre a riflettere sul significato profondo di percezione quale Wahrnehmung: Wahr-Nehmung, cioè “apprensione del vero”, la quale può riguardare anche la verità del proprio essere.
Quegli stessi avversari ritenevano che l’approvazione del testo avrebbe leso il diritto alla libertà di espressione in ordine all’orientamento e alla condotta sessuale della persona. Non è bastato, a placare i loro timori, il constatare che il testo (art. 4: Pluralismo delle idee e libertà) escludeva espressamente i reati di opinione dalle fattispecie di rilevanza penale. Per fatti concludenti, si può dire che essi hanno considerato alla stessa stregua due fenomeni che il ddl ha nettamente distinto, ovvero le manifestazioni di un parere legittimo (ancorché critico) al riguardo, e ben altre espressioni verbali (quali l’insulto o la denigrazione della persona) atte ad incitare all’odio e alla discriminazione. È legittimo porre sullo stesso piano le une e le altre?
Ancora, all’interno del dibattito suscitato dallo Zan, taluni hanno motivato la loro avversione ponendo in evidenza l’esiguità numerica delle denunce per atti di bullismo connessi all’orientamento sessuale o all’identità di genere, oppure alla disabilità. È appena il caso di notare che l’entità del fenomeno “bullismo” è tutt’altro che esigua e non va correlata al limitato numero delle denunce. Invero, a tutt’oggi, non di rado la vittima non denuncia i soprusi patiti, per timore di subire ritorsioni o di attirare su di sé la riprovazione sociale. In effetti, è dura a morire una subcultura che tende comunque a gravare la vittima di un concorso di colpa, nonché ad assumere un atteggiamento assolutorio nei confronti del/dei colpevole/i. Atteggiamento, questo, che in modo paradigmatico si riscontra in coloro che considerano gli atti di bullismo compiuti dai propri figli quali semplici “ragazzate”.
L’opportunità di istituire anche in Italia la “giornata contro l’omofobia”, che l’art. 7 del ddl Zan avrebbe previsto, si può discutere. Tuttavia, non si può bollare in modo sommario come “propaganda gender” qualsiasi iniziativa intrapresa nelle scuole (nelle secondarie, soprattutto) affinché i ragazzi e i giovani riflettano sull’esigenza del rispetto nei confronti di ognipersona e sulla gravità degli atti di bullismo. Si tratterebbe di un intervento di carattere educativo, ancorché osteggiato in via di principio da politici che si dicono convinti che la scuola debba limitarsi a “istruire”, in quanto l’educazione sarebbe compito esclusivo della famiglia. Essi ritengono, dunque, che il pluralismo delle agenzie educative sia un male da combattere. Dinanzi a tali affermazioni apodittiche si stenta a concepire un plausibile modello d’istruzione scolastica che intenda essere (e, in effetti, sia) scevro di qualsivoglia intento formativo.
Soltanto chi provenga da un esopianeta può credere che il compito di educare le giovani generazioni spetti esclusivamente alla famiglia e che questa intenda assumerlo o sia in grado di farlo. Un’ipotetica famiglia etica, tale da riprodurre in scala ridotta certi caratteri dello Stato etico, “educherebbe” soltanto alla soggezione nei confronti del totalitarismo.
Nessuno si illude che una nuova norma penale possa, di per sé, contrastare in modo significativo le varie forme di bullismo, motivate dall’orientamento sessuale o da altro. Ciò non esclude la necessità di sanzionare in modo più severo tali violenze o discriminazioni. Come è avvenuto in Italia anche per altri reati contro la persona, è comprensibile che l’evoluzione dell’ordinamento giuridico accompagni (e, più spesso, segua) l’affermazione di una cultura pluralista riguardo a varie tematiche di rilevanza sociale ed etica.