Libri scintillanti

L’ingranaggio del potere

Scritto da Alfonso Lanzieri

Tra i saggi più interessanti e dibattuti pubblicati negli ultimi mesi, va certamente annoverato L’ingranaggio del potere di Lorenzo Castellani, edito da Liberilibri (off topic: questa casa editrice di Macerata ha un catalogo molto interessante). Come si intuisce chiaramente dal titolo, il tema del libro è proprio il “potere” e le sue articolazioni nei nostri regimi democratici. La tesi cardine è esposta a pag. 25: “Nelle società avanzate il principio aristocratico ha, nell’organizzazione del potere politico della società, un peso superiore rispetto a quanto comunemente si è portati a credere o ad ammettere. Nelle democrazie contemporanee questo principio aristocratico si fonda sulla competenza, cioè sulla conoscenza specialistica degli individui, fornita e certificata dalla struttura stessa della società attraverso istituzioni educative, programmi di studio, titoli, esami e concorsi”.  La nascita e la crescita, in termini di numero e (dunque) di potere, di questo esercito di competenti è stata una diretta conseguenza dell’innalzamento esponenziale del livello di complessità delle società occidentali: la macchina statale ha richiesto sempre più personale altamente qualificato in grado di gestire un pezzettino del gigantesco dispositivo eretto (pensiamo un attimo alla enorme e intricata intelaiatura giuridica, burocratica e tecnologica che regge le nostre società), un numero crescente di tecnici che in forza di un sapere pubblicamente riconosciuto, a poco a poco, sono diventati indispensabili per la sopravvivenza della macchina stessa – e per le nostre vite. La situazione è bene esemplificata da un esperimento mentale proposto da Saint-Simon (cf. pag. 40): immaginiamo che, tutt’a un tratto, in una nazione moderna scompaiano i cento migliori generali, i cento migliori diplomatici, i cento migliori parlamentari etc. Cosa accadrebbe? Nulla, risponde filosofo francese, la vita ordinaria proseguirebbe senza intoppi. Se a sparire, invece, fossero imprenditori, banchieri e ingegneri, la società si fermerebbe immediatamente: mancherebbero i tecnici in grado di far girare il meccanismo. Ora, il principio di competenza, in base al quale deleghiamo più o meno implicitamente una certa quantità di potere a un gruppo di specialisti, convive da lungo tempo col principio rappresentativo, in base al quale i cittadini designano propri rappresentanti per esercitare funzioni di governo. Il problema – sottolinea Castellani – è che l’equilibrio tra questi due principi, di per sé sempre precario, negli ultimi decenni si è spezzato. “Di conseguenza i poteri non elettivi, a carattere tecnico, oggi condizionano la vita dei cittadini e le scelte politiche allo stesso modo, se non forse ancor di più, di quelli elettivi e rappresentativi” (pag. 25) scrive l’autore, che propone perciò di aggiungere il prefisso “tecno” al termine “democrazia”, per descrivere in modo più appropriato la politica del nostro tempo. Accanto al potere degli eletti, insomma, è cresciuto silenziosamente un altro potere, quello dei tecnocrati, che ha allargato sempre più la sua influenza, anche a causa della debolezza della politica democratica, “incapace di adottare misure impopolari, di affrontare gruppi di pressione, di selezionare una classe dirigente capace” (pag. 45), cedendo così dosi di potere progressivamente più cospicue ai corpi tecnocratici, formati da individui non eletti che prendono decisioni di alto impatto per la vita di milioni di persone, all’interno di istituzioni e comitati percepiti dai cittadini come sempre più lontani dalle loro vite.

Accanto al potere degli eletti, insomma, è cresciuto silenziosamente quello dei tecnocrati

Castellani ha il pregio di descrivere in modo asciutto e chiaro questo processo, spiegando i rischi derivanti per le nostre democrazie, con un’utile ricostruzione storica dell’espansione del potere dei “competenti” fino all’attualità, senza mai dimenticare il riferimento al modello di razionalità che sta dietro l’avanzare della tecnocrazia. Sì, perché il fenomeno preso in esame è legato a doppio filo a quella “ragione tecnica”, figlia della Modernità, il cui scopo è la totale razionalizzazione del mondo (vedi Weber). A tale scopo, questa figura della ragione ha frazionato la realtà in una serie di parti studiate da altrettanti saperi specialistici corrispondenti; i detentori di tali saperi specialistici – i tecnici – agiscono e decidono in base al solo criterio ammesso da tale modello di razionalità: l’efficienza. “Di conseguenza, ciò che anima la mentalità tecnocratica è la logica dell’uniformità. Questa fa coincidere il fine speciale di una data competenza con i fini ultimi della comunità politica” (pag. 55). In altre parole –  questo è il punto – il tecnocrate tende a negare l’autonomia del Politico. Quest’ultimo è il luogo “antieconomico” del conflitto tra le fedi, della disputa tra universi valoriali, del polemos. La decisione dell’élite tecnica, invece, non richiede dibattito: può essere solo giusta o sbagliata dal punto di vista dell’efficacia, non buona o cattiva secondo il valore. “Perché perdere tempo con gli inutili dibattiti sui valori, quando la scienza ci indica la via da seguire?” pensa il tecnocrate, che in forza della sua mentalità non riesce neppure a concepire la problematicità di tale tesi. Nel regime tecnocratico, dunque, il tecnico non si limita a suggerire i mezzi più idonei per raggiungere certi scopi, ma vuole determinare i fini della polis mutuandoli da quelli delle proprie competenze specialistiche. Se tale dinamica supera una certa soglia di espansione – e l’autore del saggio sembra dirci che tale linea è già stata superata – il prezzo della neutralizzazione del conflitto politico attraverso la “scienza” rischia di essere l’uomo stesso e la sua libertà, costretti entrambi nel “dispotismo mite” della “gabbia d’acciaio” weberiana. Castellani, lucidamente, non propone certo un ritorno al mondo di ieri: non si torna indietro dalla tecnicizzazione della società e dalla diffusione dei “competenti”. Piuttosto, serve riequilibrare il rapporto tra principio di competenza e principio democratico (su questo l’autore fornisce delle prospettive concrete nella seconda parte del saggio).

Nel regime tecnocratico, il tecnico non si limita a suggerire i mezzi più idonei per raggiungere certi scopi, ma vuole determinare i fini della polis

Credo che un possibile sottotitolo del saggio potrebbe essere: Critica della ragione tecnocratica. Castellani, per ovvi motivi legati ai propri interessi di studioso (l’autore insegna Storie delle istituzioni politiche alla Luiss Guido Carli di Roma), si interessa per lo più degli aspetti socio-politici, mettendo in luce “l’ingranaggio del potere” dei tecnici, tuttavia anche da un punto di vista squisitamente filosofico le sollecitazioni non mancano. Il libro, infatti, appare come una disamina rigorosa e puntuale delle pretese egemoniche del paradigma tecnocratico, della sua genesi e delle sue conseguenze. Come non pensare durante la lettura (di questo saggio come di Radical choc. Ascesa e caduta dei competenti di Raffaele Alberto Ventura, il suo “gemello diverso” per tanti versi) a Husserl, Weber, Horkheimer ed altri autori che, ciascuno a suo modo, avevano messo in guardia dai pericoli che un certo modello di ragione, se fosse divenuto egemonico, avrebbe potuto comportare? Come non pensare a chi ha evidenziato più di un secolo fa il rischio che una tecnoscienza delle specializzazioni (e non può che essere tale, cioè specialistica) dimentica dell’intero, rischia di fare dell’umano, per dirla sinteticamente, un mezzo per il raggiungimento dei propri fini? In parte, i problemi sollevati dal saggio di Castellani li abbiamo concretamente sperimentati durante la pandemia: i decisori politici si sono spesso appoggiati al sapere dei tecnici quasi a voler delegare agli “esperti” la responsabilità delle loro scelte; il parere dei tecnici, di contro, si è più volte mediaticamente espanso oltre i giusti limiti degli orizzonti specialistici, in alcuni casi quasi pretendendo che i fini del proprio campo di sapere,  diventassero scopi dell’intera polis, senza passare da una mediazione con interessi differenti. Lo spaesamento generato da questo scenario, suggerisce che forse la crisi della ragione tecnocratica – più precisamente della sua pretesa di dominio – è già tra noi. In troppi, del resto, hanno probabilmente dimenticato che quando Nietzsche preconizzava la “morte di Dio”, intendeva riferirsi anche agli idoli di un certo scientismo. Di quest’ultimo, i residui sono ancora in circolazione. Oppure, in alternativa, il nostro destino potrebbe essere diverso: potremmo essere alla vigilia, invece, di un ulteriore rafforzamento della tecnocrazia, magari in chiave populista. Il saggio di Castellani, seppur nella forma oggettiva e sobria della scrittura accademica, si può leggere anche come un sentito appello alla politica, affinché si riappropri del suo spazio e scongiuri tale approdo.

Il saggio di Castellani si può leggere anche come un appello alla politica

In questo quadro, è riconfermato per la filosofia l’urgente compito di una revisione del canone della ragione moderna. Crediamo, infatti, che la “ragione tecnica” non sia affatto l’esito scontato o “automatico” della vicenda Moderna, come troppa storiografia spinge a credere. Il logos occidentale ha in sé tutte le risorse per rimescolare le carte: Pascal, Guardini, Florenskij, Arendt, Bergson, lo stesso Husserl, Scheler, possono essere validi interlocutori per affrontare il tema, senza controbattere a un certo vizio col difetto simmetrico, anziché con la virtù opposta. Dobbiamo infatti guardarci da fughe nell’irrazionalismo (la porta di ogni dispotismo fascistoide). Piuttosto, serve allargare il modello di ragione, per ritrovare quella irriducibilità dell’umano che la tecnocratica postura positivista considera inessenziale o, ancor peggio, sulla quale crede di poter estendere la propria azione obiettivizzante (rispetto a ciò, les raisons du cœur di Pascal, non sono, ad esempio, una traccia che attende ancora di essere svolta fino in fondo? Non possono giocare un ruolo anche nel pensiero politico?). “L’uomo di scienza – scriveva Husserl in L’idea di Europa – si è tramutato in un lavoratore dedito unicamente a un grande ingranaggio, che poteva amare finché le operazioni di questo potevano strabiliare lui e gli altri e che non può amare del tutto seriamente e in senso alto, dato che la sua conoscenza è priva della comprensione più profonda che gli rivela in essa una spiritualità che ha una funzione necessaria per le più profonde ragioni spirituali, una necessità della teleologia che rimanda a ciò che è ultimo, a ciò per cui solo l’uomo in quanto tale può avere un interesse definitivo: detto in breve, per la sua eterna felicità. […] Se aumentiamo in infinitum le forze umane a forze gigantesche, se facciamo sì che le forze di chicchessia crescano al punto di poter studiare a fondo la scienza di ogni tempo e l’universo di ogni scienza…costui sarà in questo meglio di noi. Ma ciò lo renderà felice?”. Alla scienza come professione – ricorda Weber – le idee di libertà, salvezza e felicità, restano estranee.

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Alfonso Lanzieri

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