
Il dibattito sull’utilità o meno delle cosiddette materie umanistiche è un cantiere sempre aperto. In un certo senso, lo si può far risalire addirittura a un paio di millenni e mezzo fa. Basta leggere il testo de Le nuvole di Aristofane (IV sec. a. C.) e il suo attacco deciso nei confronti di Socrate (e dei “filosofi” in generale), il quale – secondo il commediografo greco – sarebbe stato portatore di un sapere tanto inutile e vuoto quanto nocivo per i giovani della città. Certo, un conto è parlare di “materie umanistiche” secondo l’accezione oggi abituale, altro è ciò cui si riferiva Aristofane; tuttavia mi pare si possa intravedere una radice comune tra le critiche che allora si muovevano alla filosofia appena nata e che oggi investono le materie umanistiche: queste ultime sarebbero, in ultima analisi, beni voluttuari. Si tratterebbe, cioè, nell’ipotesi più benevola, di saperi non strettamente essenziali alla nostra esistenza. Del resto, in epoca moderna, per restare nello stesso ambito, Hegel ha affermato che «se la filosofia fosse vuoto formalismo si esaurirebbe in mezz’ora», e se ha avvertito il bisogno di dirlo, vuol dire che di lamentele ne aveva sentite parecchie. Tali critiche, poi, troverebbero secondo molti la loro conferma se si guarda alla richiesta di competenze “umanistiche” nel mondo del lavoro. Emblematico l’articolo del prof. Michele Boldrin, economista di fama, il quale il 5 febbraio scorso su “Linkiesta” firmava un pezzo dal titolo Laureati italiani, ecco perché non trovate lavoro: colpa della scuola, delle imprese (e un po’ pure vostra) in cui – sintetizzo – invitava i giovani italiani e le loro famiglie a guardare in faccia la realtà ed abbandonare schemi mentali antiquati: il solo fatto di avere una laurea, qualunque essa sia, non garantisce un posto di lavoro di un certo livello; valgono le effettive competenze acquisite in relazione alla domanda del mercato del lavoro. E così «che a ogni professionalità offerta corrisponda la medesima professionalità domandata è una fantasia prodotta da “ismi” sciocchi oltre che perniciosi». Ecco allora – prosegue Boldrin – «le decine di migliaia di laureati in “scienze” della comunicazione, giuridiche, politiche, commerciali, sociologiche ed umane d’ogni forma e colore. Tutti regolarmente sottoccupati ed insoddisfatti».

La distinzione tra lauree inutili (quelle umanistiche) e lauree utili (quelle scientifiche) si rivela per lo meno troppo schematica
Qual è il problema di questa tesi? Nessuno, in un certo senso. Da un lato, è sacrosanta la critica che Boldrin muove in quel contributo al nostro sistema formativo, troppo lento ad aggiornarsi rispetto ad altri paesi; dall’altro lato, che una laurea umanistica costringa a un percorso tortuoso per arrivare a un posto di lavoro stabile è generalmente esatto. In verità, Luigi Ippolito, sul “Corriere della Sera” del 23 gennaio scorso, citando il caso della Gran Bretagna, sottolineava come in quel paese «se hai seguito buoni studi umanistici, in cui ti sei distinto con profitto, puoi intraprendere qualsiasi carriera: non ci sono preclusioni», e portava a sostegno della sua tesi una sfilza di esempi di grossi manager che avevano studiato lettere classiche, musica o filosofia. Ma anche senza voler andare tanto lontano, per tornare al discorso di Boldrin – che, giova ripeterlo, usiamo solo come esempio di tante altre prese di posizione simili – affermiamo anzitutto una cosa: quanto nota l’economista padovano è tanto vero (in parte) quanto ovvio. Con sincero rispetto per la sua ed altre analisi simili, basta un colpo d’occhio nella cerchia dei propri amici per accorgersi che con una laurea in sociologia bisogna darsi da fare un po’ in più per trovare un lavoro rispetto a chi è laureato in medicina. Ma già l’esperienza empirica mostra anche un’altra cosa, e cioè – e di certo non fa piacere – che anche molti laureati in materie “scientifiche” hanno difficoltà a trovare un’occupazione stabile e soddisfacente entro un certo numero di anni dalla fine degli studi. E l’impressione immediata è suffragata dai numeri. Come ha registrato un’indagine Istat pubblicata nel 2016, l’inserimento nel mercato del lavoro è più difficile per i laureati, sia di I che di II livello, nei gruppi Letterario (lavora il 61,7% dei laureati di I livello e il 73,4% di quelli di II livello) e Geo-biologico (58,6% dei laureati di I livello e 76,5% di II livello). Insomma, un filologo e un geologo sono, sotto questo aspetto, perlomeno comparabili. Di contro, un laureato in economia, che è materia umanistica (anche se nessuno lo ricorda più), ha più facile accesso al lavoro di un suo collega laureato in biologia. Già solo così, la distinzione tra lauree inutili (quelle umanistiche) e lauree utili (quelle scientifiche) si rivela per lo meno troppo schematica. Inoltre, come ha fatto argutamente notare Antonio Scalari sul sito “Valigia Blu” il 30 settembre 2016, in polemica su questo tema con Stefano Feltri, giornalista del “Fatto Quotidiano”, c’è «una certa differenza nel misurare il grado di utilità di una laurea sulla base della esplicita richiesta di quel titolo da parte del datore del lavoro oppure del giudizio personale sulla sua rilevanza nello svolgimento quotidiano di una mansione. È evidente infatti che ci siano professioni che più di altre, nella pratica quotidiana, necessitano di alcune competenze tecniche acquisite durante gli studi (Medicina, Ingegneria), che trovano una applicazione più immediata. Mentre altri percorsi offrono una formazione che, al di là dei contenuti, può risultare utile in diversi settori, anche molto distanti». In altri termini, se le offerte di lavoro esplicitamente indirizzate a laureati in scienze politiche o scienze della comunicazione etc. sono in numero inferiori di quelle rivolte a informatici e ingegneri, è una forzatura bella e buona concludere che tali competenze non interessino tout court al mondo del lavoro o non siano una effettiva risorsa.

L’anno prossimo nascerà la London Interdisciplinary School, un’università con un corso di studi che fonde scienze e humanities, arte e tecnologia
Insomma, la divisione netta tra lauree utili e inutili, con relativa sussunzione dei saperi umanistici nel recinto di quelle inutili, si rivela troppo approssimativa e solo apparentemente “all’avanguardia” Sì, perché impallinare i saperi umanistici, esaltando al contempo quelli “scientifici”, è a tutti gli effetti una moda provinciale: chi ha un minimo di contezza di quanto si va muovendo in comparti molto avanzati della ricerca accademica contemporanea e nell’universo aziendale più evoluto, sa che lo “spirito del tempo” sta andando in tutt’altra direzione, e cioè verso una integrazione e interdisciplinarietà sempre più spinta tra saperi che, solo 30 anni fa, camminavano in perfetta separazione. L’anno prossimo, a Londra, prenderà il via la London Interdisciplinary School, un’università che offrirà un corso di studi sui generis, che fonde scienze e humanities, arte e tecnologia. L’iniziativa – e questo è forse l’aspetto più interessante – nasce da una precisa richiesta del mondo delle imprese: fra gli sponsor, infatti, ci sono brand mondiali del calibro di McKinsey e Virgin di Richard Branson, i quali vanno sempre più alla ricerca non dell’iper-specializzazione, quanto della versatilità intellettuale. Pensare ancora per “steccati”, in altre parole, significa essere in ritardo rispetto al proprio tempo: dinanzi a noi – pronostico personale – abbiamo un mercato del lavoro che guarderà con sempre più simpatia a individui dalla conoscenza “anfibia”, capaci di incrociare competenze di segno diverso. Inoltre, per allargare un po’ lo sguardo, va ricordato come nel comparto economico-produttivo, nel suo insieme, cresca l’attenzione ai cosiddetti “beni relazionali” (sani rapporti tra lavoratori, “eticità” dell’impresa etc.) – sebbene non sia (ancora) mentalità mainstream – proprio perché tali fattori risultano essere, in molti casi, concreto moltiplicatore economico; così come acquisisce sempre maggiore spazio nel dibattito pubblico la cosiddetta “economia civile”, che punta a “correggere” impostazioni economiche dimentiche della centralità della “persona”, provando a far comunicare meglio le istanze etico-antropologiche con quelle prettamente economico-produttive. Non si contano, tanto per citare un altro aspetto della questione, i convegni e i dibattiti pubblici su “umanizzare le cure” o “umanizzazione nella sanità” e via discorrendo, nei quali sempre più si sottolinea la necessità che uno sguardo sulla “totalità dell’umano” – con l’ausilio della filosofia o della psicologia – integri la pratica medica. Taccio, perché altrimenti le cose diventerebbero davvero troppo lunghe, del fondamentale dialogo tra saperi in atto da anni attorno ai magnifici progressi della contemporanea ricerca neuroscientifica.
L’errore consiste nel valutare l’importanza di un certo sapere a partire dalla sua maggiore o minore richiesta nel mercato del lavoro
Questi ultimi brevi e schematici cenni mostrano, a parer mio, il limite maggiore di chi usa le tesi in stile Boldrin per decidere quale materia è utile e quale è inutile, il quale consiste nel valutare l’importanza di un certo sapere a partire dalla sua maggiore o minore richiesta nel mercato del lavoro. Ma sapere quante possibilità ho di trovare lavoro con una certa laurea rispetto ad un’altra, è la risposta alla domanda “quali sono le lauree che permettono un ingresso più agevole nel mondo del lavoro?” non “quali sono i saperi che riteniamo importanti per la nostra società?”. Sono due domande diverse che, se non adeguatamente distinte, rischiano di creare una rovinosa confusione. Coloro i quali, in base ai posti di lavoro disponibili, dichiarano “inutili” determinate lauree, dovrebbero poi rispondere alla domanda: saresti disposto a chiudere la facoltà di storia, filosofia, scienze della comunicazione, psicologia, geologia, archeologia, storia dell’arte, letteratura, etc.? E di conseguenza, saresti disposto a cancellare tali discipline dalla ricerca accademica e dall’insegnamento scolastico dei ragazzi per lasciarle alla curiosità privata di qualche benestante? Soltanto in caso di risposta affermativa a queste due domande, i “teorici dell’inutilità” sarebbero perfettamente coerenti con loro stessi. Solo che a quel punto avremo sì la coerenza, ma non avremo più una civiltà. Continuare a dire che le lauree umanistiche sono “inutili”, significa da un lato ingigantire l’ovvio, e cioè la maggiore difficoltà di accesso al lavoro di un laureato in materie umanistiche, dall’altro costringe al vicolo cieco di natura prima logica e poi reale, appena richiamato.
P.s.: per completezza dovrei ora parlare di finanziamenti alla ricerca e dei saperi come “bene pubblico” da custodire al di là della domanda dei “privati”; inoltre dovrei confrontarmi con la distinzione tra “materie umanistiche” e “humanities”, che non sono esattamente la stessa cosa, come ricorda il prof. Riccardo Manzotti da un po’ di tempo (una tesi che non mi vede del tutto d’accordo ma comunque degna di nota; chi vuole approfondire clicchi sul link) , però già così il pezzo è troppo lungo. Sarà per la prossima volta.
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