La vita non sempre fa male,
Risarcimento, in L’amaro miele
può stracciarti le vele, rubarti il timone,
ammazzarti i compagni a uno a uno,
giocare ai quattro venti con la tua zattera,
salarti, seccarti il cuore
come la magra galletta che ti rimane,
per regalarti nell’ora
dell’ultimo naufragio
sulle tue vergogne di vecchio
i grandi occhi, il radioso
innamorato stupore
di Nausicaa.
- Un umanista, un gentiluomo di altri tempi
Nel corso del 2020 sono stati organizzati, per lo più nella natia Comiso, vari eventi per celebrare il centenario della nascita dello scrittore Gesualdo Bufalino, scomparso nel 1976.
Nel 1981, l’uscita nelle librerie del volume Diceria dell’untore ha costituito un vero e proprio caso letterario. L’editrice Sellerio, intuito il talento letterario dell’autore, lo aveva indotto a sciogliere le ultime remore alla pubblicazione del libro: un azzardo, se l’autore è sconosciuto. Nello stesso anno, il libro si aggiudica il Premio Campiello. Pure in quel periodo, Comiso sale alla ribalta internazionale in quanto vi si insedia la Base Nato in cui, di lì a poco, verranno installati più di cento missili a testata nucleare.
Gesualdo Bufalino aveva iniziato la stesura di Diceria molti lustri prima e ha sottoposto l’opera a un limae labor oltremodo severo. Allorché pubblica il romanzo, l’autore, già sessantenne, è un oscuro professore dell’Istituto Magistrale di Vittoria. Negli ultimi quindici anni di vita assapora la fama, pur custodendo quel distacco dagli avvenimenti che contraddistingue l’intellettuale un po’ blasé.
A partire dall’ultimo dopoguerra, Bufalini si è allontanato di rado dalla cittadina natale. Proprio Comiso – e l’elementale assolato in cui è immerso l’abitato piuttosto che il contesto umano – è quasi onnipresente nelle sue pagine.
Il periodo bellico traccia una netta cesura nella biografia dell’autore e coincide con la sua maturazione umana e culturale. Gli anni antecedenti sono segnati dal succedersi convulso di eventi drammatici: l’esperienza al fronte, la cattura da parte dei tedeschi, la fuga dalla prigionia, la tisi, il ricovero in sanatorio (in Emilia e poi in Sicilia), infine la guarigione. E, dopo la guerra, il ritorno a Comiso, dove lo attende la tranquilla quotidianità di docente mite e schivo. Da allora, Bufalino, dalla sua specola di umanista, ha contemplato il mondo, scovando motivi di interesse sempre nuovi.
Una piccola conversazione con lui bastava a tradirne le sterminate letture e a rivelare in lui il Maestro d’eccezione, il gentiluomo di altri tempi. L’amplissima cultura e la ricchezza di interessi erano tali da assicurargli la stima dei colleghi e dei concittadini più colti: partecipava a tornei di scacchi, organizzava cineforum e amava ascoltare il jazz.
Sino alla pubblicazione del primo romanzo, per me Bufalino era soltanto un signore alto, calvo, segaligno, i tratti affilati, gli spessi occhiali fumè sul naso aquilino. Forse, l’aspetto austero e la postura rigida erano il retaggio della malattia contratta in gioventù, uno di quei morbi intrisi di sacro che, al loro congedarsi, lasciano nella persona ben più che una traccia criptica, ovvero uno stigma che vale a segnare una distanza, invalicabile, dagli altri.
- A partire da Diceria
Negli ultimi lustri di vita, il Bufalino scrittore ha recuperato il tempo perduto, dando alle stampe una mole ragguardevole di libri: romanzi (anche nella forma diaristica, come Argo il cieco) raccolte di poesie, aforismi nonché traduzioni dal francese e dallo spagnolo.
Innanzitutto un finissimo esteta: così mi è sembrato l’autore di Diceria. Pur nella differenza delle tematiche, per il gusto delle metafore più ardite, delle assonanze e dell’aggettivazione lussureggiante e geniale, Bufalino, più che tra gli scrittori italiani coevi, pare situarsi idealmente nel consesso degli autori spagnoli del Siglo de Oro: Lope de Vega, Calderón de La Barca, Francisco de Quevedo, Luis de Góngora…Tuttavia, le sue frequentazioni letterarie sono altre: predilige, infatti, Baudelaire, il simbolismo francese e il grande romanzo europeo dell’Ottocento, in particolare Dostoevskij.
Cultore della metafora e della similitudine, Bufalino si avvale magistralmente anche dell’allegoria. Indubbiamente, molte tra le sue pagine – in Diceria, soprattutto – configurano un’allegoria della morte. Invero, l’anticipazione della propria morte è pervicace compagna dei personaggi del romanzo. Quella malattia condurrà alla morte buona parte di loro. In una visione complessiva, si può ritenere che la morte attraversi tutta l’opera di Bufalino. Al riguardo, questi può essere accostato ad altri autori del nostro Sud, segnatamente a Giuseppe Tomasi di Lampedusa: a un attonito Chevalley, il principe Salina rivela che in Sicilia persino gli squisitissimi sorbetti al limone, in fondo, “sanno” di morte.
In una prospettiva più ampia, l’onnipervasività della morte si riscontra in altri autori ascrivibili alla cultura mediterranea. Ad esempio, di morte è intrisa l’opera dell’andaluso Federico García Lorca nonché di altri poeti e artisti conterranei. La morte permea anche le coplas, brevi componenti in versi che esprimono la quintessenza della cultura popolare andalusa. Proprio dalle coplas traggono diverse suggestioni autori quali Antonio Machado, lo stesso Lorca e la mujer filósofo María Zambrano.
Si comprende allora come Bufalino, talentuoso dell’ossimoro nonché jongleur della parola, ami “giocare” sull’ossimoro luce/lutto. Chi, in un pomeriggio dell’estate siciliana, abbia partecipato (o anche solo assistito) a un corteo funebre può avvertire pienamente la densità semantica di siffatto ossimoro: la luce inonda allora – beffarda, impudica, atarassica – persone, cose e il lutto stesso. È l’apoteosi dell’assurdo. Del resto, il corteo funebre è un tòpos delle pagine di Pirandello nonché delle commedie all’italiana ambientate in Sicilia. Nel drammaturgo, la luce/lutto propria di un funerale meridiano (e meridionale) vale ad esprimere il “sentimento del contrario”, al centro della teoria dell’umorismo propria dell’autore. Quanto alla filmografia, è superfluo rilevare l’importanza assunta dalle rappresentazioni di cortei funebri (immancabilmente d’estate): la salma “esposta”, il vacuo chiacchiericcio della veglia, le prefiche intorno alla bara, i baci convulsi sui volti madidi di sore, il corteo che attraversa la piazza centrale del paese e, infine, la messa con la scontatissima omelia. Film quali Sedotta e abbandonata e Divorzio all’italiana hanno reso un’immagine grottesca, più che umoristica, di tale evento, all’interno di una rappresentazione complessiva della Sicilia che, certamente, Gesualdo Bufalino detestava cordialmente.
Di converso, l’immagine della Sicilia proposta dallo scrittore, lungi dall’umoristico e ancor più dal grottesco, è quella di una terra mitica, ove l’elementale soverchia il personale, il sociale e lo storico, una regione aldiquá e aldilà del bene e del male. E, forse, di una terra fondamentalmente areligiosa. Certo, l’autore non manifesta simpatia per la religione positiva. Non so se avrebbe condiviso quanto affermava l’amico Sciascia circa l’estraneità dell’uomo siciliano all’autentica religiosità cristiana. È vero, tuttavia, che – come la stragrande maggioranza dei grandi autori partecipi della cultura meridionale – lo scrittore comisano presenta il sacerdote quale tipo antropologico gravato da molteplici connotazioni negative. In effetti, ove si eccettuino Ignazio Silone e Corrado Alvaro, generalmente gli esponenti di quella letteratura offrono un’immagine tutt’altro che simpatetica di sacerdoti e religiosi: si pensi a Jovine, Capuana, Verga, De Roberto, Sciascia, Tomasi di Lampedusa e, ovviamente, Pirandello.
Come buona parte di questi autori, Bufalino non crede neppure nella possibilità di una prassi politica rinnovata e rinnovatrice né in una redenzione della propria terra che si compia nell’immanenza della storia. Da poeta, egli vive soprattutto nella memoria e della memoria: la soggettività stessa di un poeta è essenzialmente anamnesi. Analogamente al Montale de Le occasioni, Bufalino assume quindi oggetti, cose, suoni ed eventi del presente quale breccia da cui irrompe il passato.
Inoltre, la peculiarità del proprio mal di vivere accomuna Gesualdo Bufalino ai poeti dell’Ottocento più che alla miriade di esseri umani angosciati e depressi a lui coevi. E, al tempo in cui lo aveva colpito, la tisi era già quasi una malattia desueta, tipica dei secoli trascorsi. Da uomo ben coerente, egli preferiva il cinema muto alla filmografia più recente ed esprimeva il proprio arroccarsi al passato anche nella foggia degli occhiali e nell’abbigliamento.
- Luce infinita: un evento da riproporre “in carne e ossa”
Nel 2020, l’evolversi della pandemia ha influito anche sulle modalità con cui si sono svolti gli eventi previsti per il centenario. La Fondazione Bufalino ha organizzato con la massima cura le varie iniziative dell’anniversario. La Fondazione (www.fondazionebufalino.it) custodisce il lascito dell’autore, ovvero i manoscritti e dattiloscritti, le pubblicazioni, i carteggi e la biblioteca.
Ancor prima del lockdown, il 7 febbraio 2020, al teatro “Naselli” di Comiso, è stata presentata una trasposizione teatrale del diario-romanzo Argo il cieco. Tra il 14 e il 15 novembre, al culmine delle celebrazioni previste, si sono svolti altri eventi, tra i quali la pubblicazione di alcuni libri, una mostra bibliografica e fotografica, una Giornata di Studi e il concerto musicale Luce Infinita.
A causa del lockdown, il concerto Si è svolto in diretta streaming; ora è fruibile su Facebook e sul sito della Fondazione. Esso ha proposto alcune poesie dell’autore comisano, tratte dalla raccolta L’amaro miele, pubblicata originariamente nel 1982 presso l’editrice Bompiani.
I testi musicali del concerto sono stati scritti dai compositori Marco Reghezza, Giovanni Scapecchi e Joe Schittino. Totò Calvo alla chitarra e Carmelo Dell’Acqua al clarinetto hanno accompagnato l’interpretazione di Sachika Ito, soprano che si è distinto in vari eventi musicali svoltisi in Europa e in Asia.
Riguardo alle poesie proposte nel concerto, Toto Calvo ha precisato:
Le composizioni riprenderanno il filo conduttore della poetica di Bufalino, tracciando un disegno organico sia pure nella diversità dei temi trattati. Dodici canzoni di gusto moderno ma non troppo audace, che riflettono al massimo lo spirito di un poeta che, sia pure con i piedi ben puntati su estetiche e linguaggi del passato, non perde occasione di omaggiare la contemporaneità che lo circonda.
Colgo qui l’occasione per ringraziare l’amico Calvo (conterraneo dello scrittore), poiché mi ha reso partecipe di siffatta Luce Infinita. Ben si comprende come gli autori e interpreti sperino di poter riproporre – al più presto e dal vivo – il concerto, a Comiso e altrove. Invero, in Luce Infinita si è realizzata una feconda contaminatio tra musica e poesia. In un prossimo futuro, altri concerti ed altri eventi commemorativi, ideati proprio sulla scia di Luce Infinita, potranno costituire l’omaggio più consono ad un autore poliedrico e sinestetico quale Gesualdo Bufalino.