Monologhi

NON DIMENTICHIAMO IL NOSTRO VOLTO

Scritto da Valentina Erasmo

Riflessioni “dietro” e “sulla” mascherina ai tempi del Covid-19

Si legge nella Preghiera contenuta nella “Summa di Maqroll il Gabbiere. Antologia Poetica” (1948-1988) di Alvaro Mutis : “Ricorda Signore che il tuo servo ha osservato pazientemente le leggi del branco. Non dimenticare il suo volto”, poi parafrasata e rovesciata in “Smisurata Preghiera” (1996) di Fabrizio de André nei termini di “Ricorda Signora questi servi disobbedienti alle leggi del branco, non dimenticare il loro volto”.

Nella maggior parte dei Paesi, uomini e donne stanno “obbedendo pazientemente” alle leggi volte al contenimento della pandemia Covid-19 in attesa della tanto agognata immunità di gregge che si auspica venga raggiunta al più presto, su scala globale, attraverso i vaccini: oltre a praticare il distanziamento sociale, stiamo indossando la mascherina, come dispositivo di protezione individuale e collettiva. 

Un interrogativo è d’obbligo: che fine ha fatto il nostro volto? 

      In questo breve articolo, non si intende discutere le misure e le strategie adottate dai policy-maker per il contenimento di questa emergenza economico-sanitaria, lasciando in maniera del tutto intenzionale possibili analisi politiche e sanitarie fuori da questo spazio. Piuttosto, si vuole offrire alcune riflessioni, “dietro” e “sulla” mascherina, intorno al volto, trovatosi a essere parzialmente coperto da questi dispositivi, ma non per questo va dimenticato, parafrasando Mutis e De Andrè. 

         In primis, credo sia interessante iniziare con alcune riflessioni “sulla mascherina”, attraverso una breve ricostruzione storica sul suo impiego, in quanto non si tratta di un uso nuovo e inedito: nel XIV secolo, ad esempio, c’era il sinistro, quanto bislacco, becco del medico della peste, riempito di erbe medicamentose e paglia che fungevano da arcaico e ipotetico filtro per impedire il passaggio degli agenti patogeni responsabili di quella pandemia. Bisogna arrivare al XVII secolo, presso la corte di Luigi XIII, per vedere questa originale maschera a forma di becco completata da una lunga tunica nera, guanti, scarpe, bastone e cappello.  

Arrivando al secolo scorso, c’è stata una pandemia molto simile a quella contemporanea, ovvero l’influenza spagnola, che prende il suo nome dalla Spagna, ossia lo Stato che per primo comunicò la presenza di una forma virale molto aggressiva sul suo territorio, non essendo soggetto alla censura di guerra poiché fuori dal Primo conflitto mondiale. I numeri furono impressionanti: 500 milioni di contagiati, pari a un terzo della popolazione mondiale, con un tasso di mortalità pari al 10-20%. Come testimoniano le fotografie dell’epoca, lo strumento di protezione individuale era sempre la mascherina.

Spostandoci in Oriente, l’utilizzo quotidiano della mascherina in Giappone si è diffuso sempre a causa di una forma influenzale molto aggressiva che colpì questi territori nell’inverno 1934: nella loro cultura, in cui la cortesia e lo spirito cooperativo costituiscono le fondamenta della vita sociale, la mascherina è diventato uno strumento d’uso comune volto a evitare la diffusione di germi con semplici sternuti o colpi di tosse a difesa delle categorie più deboli della popolazione. Al contempo, è bene precisare che la mascherina veniva inizialmente usata solo da chi era malato, diventando altresì uno strumento per individuare visivamente, in maniera estremamente immediata, chi non era sano nella propria comunità. Tuttavia, dagli anni Cinquanta, la mascherina entra nelle pratiche di uso comune, un capo da indossare tutto l’anno, indistintamente dalle proprie condizioni di salute, a fronte degli elevati tassi di inquinamento raggiunti nelle città più industrializzate, come mostra lo scatto di uno dei giganti della storia della fotografia, il recentemente scomparso Frank Horvat.

Frank Horvat, Incontro Sterile (Tokyo 1963), fonte: Doppiozero

In tutti questi impieghi della mascherina che si sono susseguiti nella storia e nel mondo, c’è sempre una costante: il nascondimento del volto, in cui restano visibili solo la fronte e gli occhi, mentre naso, zigomi e labbra sono rigorosamente (aggiungerei, “doverosamente”) coperti. Pensandoci bene, quanti stati d’animo, quanti sentimenti esprimiamo con queste parti del volto che restano nascoste “dietro la mascherina”?  In una risata, ad esempio, sono coinvolti circa 12 muscoli: per la precisione, i due levator anguli oris consentono il sollevamento dei lati della bocca; invece, i levator labii superioris permettono di sollevare il labbro superiore, mentre gli orbicularis oculi vanno ad agire sull’orbita oculare. Infine, i risorius fanno sì che labbra possano essere portate indietro, mentre gli zygomaticusmajor e minor, rendono possibile il sollevamento degli zigomi. Con la mascherina, si può solo intuire il disvelamento di un sorriso dal sollevamento dell’orbita oculare. 

La bocca non esprime solo stati d’animo, ma adempie a una pluralità di funzioni comunicative, le quali hanno subìto un mutamento sostanziale a fronte dell’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale: in questo senso, vorrei menzionare le parti più deboli della nostra società, come i sordi e gli ipoudenti oppure coloro affetti da patologie incompatibili persino con la possibilità di indossare una mascherina a propria difesa da questa pandemia. Circa i primi, la studentessa americana Ashley Lawrence ha sottolineato come le espressioni facciali sono parte integrante della grammatica della lingua dei segni usata da sordi e ipoudenti: coprendo il volto, si perdono informazioni fondamentali per loro, rendendo impossibile la lettura del labiale. Per questa ragione, la Lawrence ha avuto l’idea di modificare la mascherina, lasciando che la bocca venisse ricoperta solo da una semplice membrana trasparente. Quanto ai secondi, ci sono pazienti che risultano, invece, esonerati dall’uso della mascherina, non incorrendo nel rischio di sanzioni amministrative in caso di mancato utilizzo di questo dispositivo di protezione individuale. Tra questi pazienti, sono compresi tutti quelli che si trovano sulla sedia a rotelle oppure che possono muoversi solo attraverso l’uso del deambulatore, nonché risultino affetti da disabilità o patologie che compromettono significativamente le capacità fisiche e/o neurologiche. Il “volto nudo” di questi individui più fragili, privo di qualsiasi difesa, è un invito all’adozione di comportamenti socialmente responsabili, oltre quella che può essere la semplice sfera giuridico-legale, non avendo alcuna forma di difesa da questa pandemia nei loro spostamenti quotidiani.

Restando sempre “dietro alla mascherina”, tra gli esponenti più illustri che si sono interrogati sul tema del volto, c’è Emmanuel Lévinas, diventato il vero e proprio musagete della sua riflessione filosofica. In particolare, egli sostiene che: “l’ordine del senso, che mi sembra il primo per importanza, è precisamente quello che ci proviene dalla relazione interumana e che, quindi, il Volto, con tutto ciò che l’analisi può rivelare della sua significazione, è l’inizio dell’intelligibilità”(E. Lévinas, Filosofia, giustizia, amore, 2010, p.233). L’incontro con il Volto dell’Altro rappresenta il momento del riconoscimento della sua alterità, della sua estraneità rispetto a me stesso. Eppure, è proprio attraverso questa esperienza relazionale di ciò che è Altro da me che posso paradossalmente comprendere autenticamente me stesso. La comprensione della mia soggettività passa attraverso l’alterità, mentre il rapporto che si va così stabilendo ha come suo fondamento l’eticità. Difatti, ogni relazione con ciò che è Altro da me è per definizione “etica” perché è la dinamica di avvicinamento all’alterità a renderla tale, poiché frutto del superamento dell’egoismo, ossia di rinuncia dell’assolutezza dell’Io (E. Trotta, Il Volto dell’Altro. L’umanesimo di Emmanuel Lévinas, “Filosofia e Nuovi Sentieri”, 2020). Questa centralità del volto in Lévinas è figlia della sua religiosità spiccatamente ebraica che è legata con un indissolubile fil rougea tutta la sua riflessione filosofica. 

In questo peculiare frangente storico, sarebbe stato estremamente affascinante intervistare Lévinas per chiedergli come la mascherina, insieme al distanziamento sociale, abbia modificato la nostra relazione con se stessi e con gli altri. Attraverso un’audace “licenza filosofica”, potremmo azzardare la sua risposta: perdere di vista il volto dell’Altro equivale a perdere non solo quella alterità che si manifesta nella relazione, con il rischio concreto di mettere in atto logiche egoistiche, ma una parte significativa della comprensione che ognuno di noi ha di se stesso. 

E. Lévinas

L’Io non può esistere autenticamente senza l’Altro: l’uomo conosce se stesso, ma attraverso gli altri. Oggi, più che mai, il noto imperativo socratico andrebbe integrato in questa dimensione socio-relazionale. Ripensare il volto ai tempi del Covid-19 vuol dire ricordare che dietro questa “ascosità”  temporanea, l’Altro resta sempre, nonostante non possa palesarsi. Il fatto che il nostro volto stia dietro a una mascherina non vuol dire che sia scomparso, così come non è venuta meno l’alterità o la possibilità di trascendere la propria soggettività per entrare in un rapporto etico con l’Altro. 

Per mantenere la relazione etica, bisogna imparare a non dimenticare questi nostri volti, come ben dicono Mutis e De Andrè, in attesa di vederli di nuovo in tutta la loro nuda alterità.

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Valentina Erasmo

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