Vorrei parlare del saggio Radical choc. Ascesa e caduta dei competenti di Raffaele Alberto Ventura (d’ora in poi solo RAV), pubblicato da Einaudi in questo anno infausto. Il prezzo di copertina è 14 euro, e li vale tutti. Prima di proseguire vorrei dire che questa non è una recensione vera e propria: se ne possono trovare altre molto ben fatte. Voglio solo esprimere qualche mia risonanza, dopo aver ripercorso i concetti salienti del libro, sperando di indurre qualcuno alla lettura.
Max Weber chiamava “vegetariani della politica” i pacifisti del suo tempo, additandoli, in pratica, come ingenui radical-chic incapaci di un pensiero virile, cioè realistico, sulla realtà. Ecco, il saggio di RAV non è per vegetariani (mi scusino questi ultimi, è solo una metafora datata ma credo ancora efficace). Il problema dell’attuale crisi delle nostre società è affrontato senza sconti, idealizzazioni, afflati, proponendo una rigorosa archeologia della modernità e dei suoi prodotti socio-politici. Come ogni buon saggio, però, l’opera ha un’idea, una prospettiva ermeneutica unitaria, che innerva ogni pagina, e dalla quale, come il mozzo di una ruota, si dipartono i vari raggi-corollari: così l’idea inizia a muoversi nella testa del lettore e a percorrere pezzi di realtà sempre più ampi.
Qual è questa idea? La possiamo esprimere in due punti. Anzitutto, se dovessimo riassumere con una sola parola la promessa dell’età moderna – argomenta RAV – questa sarebbe “sicurezza”. In primis la sicurezza nel senso di incolumità fisica, protezione dal rischio di morte, di cui lo Stato hobbesiano si fa garante; poi tutte le altre sicurezze che la crescita economica porta con sé, insomma la prosperità; infine la sicuezza nel senso di certezza, quella data dalla scienza moderna come piano di progressiva razionalizzazione del mondo. La capacità di saper mantenere questa promessa fonda la legittimità del progetto moderno. Insomma, Stato, Tecnoscienza ed Economia di mercato si sono circolarmente rafforzati e il Sistema ha funzionato, su questo non c’è dubbio. Scrive infatti RAV, in uno dei passaggi chiave: «se il circolo virtuoso tra sicurezza e sviluppo garantito dalla differenziazione funzionale delle competenze ha potuto funzionare per secoli in maniera tanto efficace, non è soltanto perché lo sviluppo è stato a lungo in grado di finanziare la produzione di sicurezza e la produzione di sicurezza di assicurare lo sviluppo, ma anche perché il consenso implicito alla sua efficacia ne garantiva la legittimazione: ogni generazione vedeva migliorare a vista d’occhio il proprio benessere materiale e ridurre i rischi rappresentati dalla miseria, dalle malattie e dalla violenza» (p. 102). Tuttavia, e qui siamo al secondo punto della tesi centrale, avevamo dimenticato o rimosso una verità elementare: che lo sviluppo del sistema non può essere infinito. Superata una certa soglia, inizia a presentare il conto. L’imponente e meravigliosa macchina tecno-burocratica che l’Occidente ha eretto per razionalizzare il mondo, al fine di controllarlo ed erigere una città degli uomini sempre più prospera, inizia a essere talmente complessa da diventare essa stessa, passo dopo passo, una realtà caotica che non sappiamo più controllare (la pandemia è stato un buon esempio di questo effetto); i rischi sono sempre di più e sempre più minacciosi: «circondati da macchine e procedure, tendiamo a convincerci che tutto andrà liscio perché progettato in maniera impeccabile, sottovalutando sia l’incertezza strutturale, sia le trasformazioni che potrebbero rendere obsolete le nostre previsioni. Inoltre ci troviamo a gestire tecnicamente delle situazioni sempre più complesse, simili a enormi cattedrali gotiche: aeromobili con centinaia di passeggeri, reti stradali, centrali nucleari, economie nazionali sempre più interdipendenti, reti bancarie, ampi territori percorsi da tensioni e rischi sanitari. Oggi siamo sempre meno sicuri di poter finanziare la manutenzione di questi sistemi all’altezza dei requisiti» (p. 113-114). E qui s’inserisce il tema dei competenti. L’esercito di esperti, specialisti, burocrati si è accresciuto enormemente negli ultimi secoli, in ragione della progressiva dilatazione della tecnostruttura: più cresce la macchina, più aumentano i suoi imprescindibili sviluppatori e manuntentori. Noi tutti non abbiamo potuto far altro che renderci liberamente dipendenti dai competenti: finché ha garantito lo sviluppo, infatti, il saldo costi-benefici di questo contratto è stato positivo per tutti o comunque per la maggioranza. Ma ora? Adesso la spinta propulsiva sembra essersi arrestata. Il ciclo della modernizzazione, segnato dai tre fattori interconnessi dell’espansione continua delle burocrazie, dai progressi tecno-scientifici e dalla crescita economica è entrato da mezzo secolo in una fase di rendimenti decrescenti: ogni investimento genera sempre meno benefici collettivi e non può sostenere un’espansione illimitata. «Il circuito competenza-innovazione-sviluppo sembra aver raggiunto le sue colonne d’Ercole» (p.183) causando la perdita di legittimità della classe dei competenti: è in quest’ottica – aggiungiamo noi – che va anche inquadrata la crescente critica al mainstream scientifico (“i professoroni”), mediatico (“i giornaloni”), etc., e l’ascesa politica dei cosiddetti populismi. Senza contare poi l’enorme massa di individui dotati di un elevato capitale culturale, sempre più ai margini della cosiddetta tecnostruttura: si tratta del diffuso “proletariato intellettuale” prodotto dai nostri sistemi d’istruzione che non riceve più le gratificazioni economiche e sociali promesse. Come relegata nella terza classe del Titanic, questa massa critica qualificata preme sui cancelli per raggiungere il ponte della nave, disposta anche a travolgere quanti presidiano il varco (già Nietzsche si chiedeva: “vogliamo far studiare tutti: poi cosa gli daremo da fare?”, e naturalmente non fu capito dagli irenici vegetariani del suo tempo). Quest’ultimo è solo uno degli aspetti della disgregazione sociale e generazionale che giorno per giorno si acuisce sotto i nostri occhi, mettendo a rischio i presupposti democratici.
Il circuito competenza-innovazione-sviluppo sembra aver raggiunto le sue colonne d’Ercole causando la perdita di legittimità della classe dei competenti
Quale futuro? Se il “progetto moderno” dev’essere portato fino alle sue estreme conseguenze, davanti a noi potremmo avere una “modernizzazione senza democrazia”, poiché la democrazia e i suoi principi – libertà di parola, di movimento etc.- rappresentano in fondo l’ultimo elemento “irrazionale” da togliere (Aufhebung) per il trionfo della tecnostruttura. Questo destino potrebbe incarnarsi in due esiti diversi: o il “capitalismo di Stato” (sul modello cinese) o il tecnopopulismo. La prospettiva finale che RAV lascia al lettore ricorda quasi la dialettica hegeliana. Nella prima ipotesi, alla tesi dell’economia di mercato capitalistica, si sarebbe contrapposta l’antitesi dell’economia statalista comunista, ed entrambe si sintetizzeranno nel capitalismo statalista («Ritengo che nel mondo ci sia un unico capitalismo – disse una volta Camus – ma che può assumere forme diverse: capitalismo privato o capitalismo di stato»); nella seconda, alla tesi, incarnata dalla nascita e dallo sviluppo della tecnocrazia, sarebbe seguita l’antitesi del populismo, inteso come rivolta verso un establishment sempre più costoso e sempre meno performante, per giungere alla sintesi tecnopopulista.
Questo destino potrebbe incarnarsi in due esiti diversi: o il “capitalismo di Stato” (sul modello cinese) o il tecnopopulismo
La previsione non lascia tranquilli, tuttavia occorre prenderla sul serio e prepararsi a una lunga, incerta ed epocale transizione verso un nuovo mondo, della quale siamo tutti ormai consci. Forse per questo il mood oggi più diffuso nelle masse, piaccia o meno, è incline all’antimodernità: se, come ha affermato Roland Barthes, il “moderno” è un uomo al quale il passato pesa, alla maggior parte delle persone oggi il passato manca, poiché, come sentenzia l’ultima riga del libro, “il nostro tempo è passato e il mondo in cui siamo cresciuti appartiene già a ieri”. Il mondo che verrà è ancora in costruzione, e i lavori costeranno fatica, incertezza, lotta, frustrazione, antagonismo. Il saggio di RAV può essere letto anche come un capitolo di un’opera collettiva intitolata Critica della Ragione Moderna che tanti intellettuali hanno scritto e stanno scrivendo in questi decenni: “la storia della Ragione – scrive RAV nel finale – non è altro in fondo che la storia della sua bancarotta”. Di questa possibile bancarotta, come detto, si sono occupati Nietzsche, Weber, Husserl, Heidegger, Guardini, Florenskij, e tanti altri pensatori che, tra ‘800 e ‘900, hanno diagnosticato – da prospettive, presupposti e fini diversi certo, ma con tratti comuni ben riconoscibili – la crisi dell’Occidente, del suo progetto fondato sull’ideale della completa razionalizzazione del mondo, vale a dire sull’assoggettamento del reale all’organizzazione del pensiero, e dei suoi esiti problematici (si pensi alla “gabbia d’acciaio” weberiana o al problema del Gestell heideggeriano). Del resto, basta andare da Francesco Bacone, agli albori della scienza moderna, per ricordare il suo “conoscere per prevedere”, che battezzava la tecnoscienza ancora in fasce – scienza che vuole conoscere sempre più per dominare il mondo e assoggettarlo ai fini dello spirito umano – la cui “metafisica” avrebbe però giganteggiato nei secoli successivi, diventando ‘globo’. E cosa invita a fare quel campione della modernità che è Hegel? Lo dice esplicitamente nella prefazione della Fenomenologia dello spirito: bisogna congedarsi – afferma – dall’amore per il sapere (filosofia) e abbracciare la scienza (Wissenshaft), per fare il mondo a nostra immagine. Il cerchio si chiude perfettamente. Marx, come sappiamo tutti, non vorrà far altro che inserirsi in questa prospettiva (anche se rovesciata), e la sua critica al capitalismo – cosa che in molti dimenticano – non vorrà eliminare il presupposto dello sviluppo infinito della Mens ma, al contrario, in un certo senso liberarlo dal capitalismo, incapace di assicurarlo a causa delle proprie interne contraddizioni. Il capitalismo opera per il suo stesso superamento (usare Marx contro l’ethos del capitalismo è perciò strategia problematica). Quando RAV parla della bancarotta della Ragione, allude a questa gigantesca vicenda, e tuttavia non possiamo non chiedergli: quale Ragione? La modernità, cioè, è stata solo questa Ragione, oppure esistono canoni alternativi non ancora valorizzati? Detto in altri termini: il logos occidentale, ha in sé le risorse per risolvere i problemi generati dal suo stesso esercizio? La risposta del sottoscritto è affermativa, e oso sostenere che se c’è un compito urgente per gli intellettuali contemporanei è proprio la ricognizione puntuale di questo canone alternativo, oltre i “debolismi” post-moderni. Bisogna farlo necessariamente senza diventare reazionari. Su questo sarebbe interessante sentire il parere dell’autore, perché qui –a parer mio – sta la vera crux. È una domanda metafisica, dunque è una domanda politica, perché il saggio che stiamo discutendo mette insieme questi due livelli, sebbene quello metafisico non rappresenti il piano di esplicita trattazione. In fondo Heidegger, e prima di lui Husserl, hanno tentato questa strada: rileggere la storia del logos alla ricerca di risorse utili a risolvere la crisi attuale o, quantomeno, a elaborare un buon piano di atterraggio per la caduta.
Il logos occidentale, ha in sé le risorse per risolvere i problemi generati dal suo stesso esercizio?
Davvero interessante. Concordo con la chiosa finale.