Dialoghi

Trent’anni fa, la grande scoperta dei “neuroni specchio” a Parma. In dialogo con Vittorio Gallese

Scritto da Alfonso Lanzieri

In che modo comprendiamo le azioni degli altri? Riusciamo a decodificarle perché, in qualche maniera, quelle azioni risuonano dentro di noi. Non si tratta, anzitutto, di un processo logico-consapevole (questo livello sopraggiunge in un secondo momento); ciò che vedo fare a un’altra persona mi è presente perché qualcosa in me si “attiva” e permette il riconoscimento del senso di ciò che osservo. Questa spiegazione – che ovviamente qui è resa in modo semplificato – è stata proposta dalla filosofia di scuola fenomenologica (Husserl, anzitutto, poi Merleau-Ponty ed altri) nella prima metà del ‘900, ed è centrale nella teoria mimetica sviluppata dall’antropologo René Girard nella seconda metà del secolo passato. Considerata, però, alla stregua di una “poesia” nelle aule di neurofisiologia e filosofia analitica, fino a qualche decennio fa, è oggi invece l’indirizzo prevalente della ricerca, grazie soprattutto alla scoperta dei “neuroni specchio”, una delle più importanti nell’ambito delle neuroscienze contemporanee.

Gli scopritori dimostrarono l’esistenza di particolari cellule motorie del cervello che non solo si attivano durante l’esecuzione di movimenti e azioni, ma sono in grado di svolgere una funzione “percettiva” (a livello subpersonale), attivandosi anche durante l’osservazione di altri individui che eseguono movimenti e azioni simili, come se a compiere quelle azioni fossi effettivamente io. Successive ricerche, poi, hanno dimostrato come tale dinamica si estendesse anche al campo emotivo e sensoriale, con una serie di conseguenze per la ricerca neuroscientifica ma anche per le cosiddette scienze umane: insomma, oggi ne sappiamo un po’ di più su “chi siamo” e di come funziona quello straordinario fenomeno chiamato “coscienza” e dei meccanismi che stanno alla base delle nostre interazioni sociali. La nostra relazione col mondo e con gli altri passa da un canale comunicativo inscritto nel nostro sistema nervoso, che ci mette in connessione intersoggettiva prima di parole e concetti. Non devo costruirmi una rappresentazione mentale della rappresentazione mentale dell’altro per comprendere il senso delle sue azioni: questa visione così complicata, che pure è stata un modello esplicativo di un certo successo, è stata falsificata dai mirror neurons. Giungiamo, allora, a un termine fortunato degli ultimi anni: “empatia”, della quale i neuroni specchio sono, per così dire, la base fisiologica. Dapprima solo concetto di grande portata filosofica (di particolare importanza in ambito morale), l’empatia è ora un importante tema neuroscientifico, oggetto di una grande – talvolta bulimica – quantità di saggi.

La scoperta dei neuroni specchio è avvenuta a Parma trent’anni fa – era il 1991 – ad opera di un’equipe di scienziati italiani, guidata dal professor Giacomo Rizzolatti. Tra questi, il professor Vittorio Gallese, oggi tra i più importanti neuroscienziati a livello internazionale. Gallese è Ordinario di Psicobiologia presso il Dipartimento di Medicina e Chirurgia – Unità di Neuroscienze dell’Università degli Studi di Parma, Coordinatore del Dottorato in Neuroscienze e direttore della Scuola Dottorale di Medicina e Chirurgia e Medicina Veterinaria del medesimo Ateneo e dal 2010 anche Adjunct Senior Research Scholar, presso il Dept. of Art History and Archeology della Columbia University di New York

Gli scopritori dimostrarono l’esistenza di particolari cellule motorie del cervello che non solo si attivano durante l’esecuzione di movimenti e azioni, ma anche durante l’osservazione di altri individui che eseguono movimenti e azioni simili

Ho raggiunto il professor Gallese su Skype. La conversazione passa da un tema all’altro, toccando vari aspetti delle sue ricerche. Ecco qualche stralcio.

Professor Gallese, andiamo dritti al punto: che cos’è l’empatia?

«Beh, le definizioni disponibili sono quasi infinite. Posso dirle che personalmente mi rifaccio a Edith Stein, filosofa fenomenologa, allieva di Husserl, la quale sosteneva che l’empatia è la possibilità di comprendere l’agire e l’esperire dell’altro, attribuendoli all’altro. Empatizzare significa fare esperienza della soggettività dell’altro, conservandone l’alterità. Si tratta di una modalità di base della relazione: è prelogica. I neuroni specchio costituiscono un elemento necessario per questa dinamica, non sappiamo se sufficiente. Grazie ai neuroni specchio, riconosco nell’altro un mio simile: se mi capita di vedere qualcuno che si dà una martellata su un piede, non ho bisogno di una teoria della mente per sapere che prova dolore. Lo so, lo comprendo, come il suo dolore.

Sì, però l’empatia è anche un po’ croce e delizia.

Senza dubbio. Nel 2003 pubblicai un articolo, intitolato The Roots of Emphaty, in cui citavo il filosofo Lipps, che aveva studiato l’empatia, definendola “innere nachahmung”, cioè imitazione interiore. Mal me ne incolse coi fenomenologi! (ride) Criticarono questo riferimento, preferendone evidentemente altri. Al di là di questo aneddoto, di empatia si parla tanto, ma non sempre con la dovuta precisione. Viene confusa sistematicamente con l’altruismo, con la bontà, con la simpatia. Storicamente a complicare le cose sono stati gli illuministi scozzesi – questa almeno è la mia lettura – perché quando Adam Smith parla di “sympathy” credo che in realtà si stia riferendo alla “empathy”. Ecco, qui già si nota l’inizio dei fraintendimenti che continuano ancor oggi, le cui tracce sono ovunque sui quotidiani ad esempio. La distinzione fondamentale per me è questa: “empatia” significa sentire-con, “simpatia” significa sentire-per. Si può essere simpatetici senza essere empatici? Credo di no. Si può essere empatici senza essere simpatici? Sì. Tant’è vero che io posso usare l’empatia per manipolarti o farti del male: il sadico, ad esempio, procura dolore all’altro proprio in virtù della conoscenza dell’altrui sentire. La relazione col mondo, insomma, non è solo epistemica, come credono i cognitivisti.

Vittorio Gallese è Ordinario di Psicobiologia presso il Dipartimento di Medicina e Chirurgia – Unità di Neuroscienze dell’Università degli Studi di Parma

Stiamo parlando di un tema che si colloca al confine tra varie discipline. Allora non possiamo evitare di dir qualcosa sul rapporto tra filosofi e neuroscienziati. C’è una parte della filosofia che guarda alle neuroscienze quasi come a quel sapere che vuole rubarle uno spazio essenziale del proprio campo di lavoro: la coscienza, o anche lo spirito. Ma credo che ciò avvenga più per scarsa conoscenza diretta che per altro. Se si guarda il paesaggio dall’interno, le cose per lo più non stanno così. Voglio dire che tra i neuroscienziati c’è grande consapevolezza del fatto che il livello umano dell’esperienza non è sic et simpliciter riducibile a quello neurofisiologico.

Nonostante si siano fatti negli ultimi tempi tanti passi avanti, sul fronte del dialogo tra le cosiddette due culture, quella scientifica e quella umanistica, c’è ancora molto da lavorare. Io comunque mi definisco un riduzionista metodologico: devo ridurre la complessità della vita a poche variabili che posso controllare in laboratorio. Ma ciò deriva dalla natura stessa del sapere che tentiamo di costruire. Sono perfettamente consapevole del fatto che guardo il mondo dal buco della serratura, per usare un’immagine. Insomma, io studio un livello di descrizione, quello sub-personale, ma questo livello non è tutto: sarebbe una forzatura. É come ricomporre un puzzle, aggiungendo un pezzo alla volta. L’importante è non perdere di vista il quadro d’insieme, il livello di descrizione antropologico, che è il vero explanandum.

Possiamo distinguere tra “riduttivismo” e “riduzionismo”.

Direi di sì. Il primo atteggiamento è proprio di chi vuol ricondurre tutta la complessità a un unico livello esplicativo, affermando, ad esempio, che la coscienza non è altro che i neuroni: molti colleghi si fermano qui; mentre il secondo, il riduzionismo, inteso come metodologico, è fondamentale per la pratica scientifica. Del resto, il nuovo paradigma di spiegazione dell’esperienza cosciente, la cosiddetta 4E Cognitionembodied, enacted, extended, embedded – per me fornisce molti argomenti contro il riduttivismo di cui sopra, proprio perché parla di un’esperienza del mondo che si fa grazie al nostro corpo in azione, immerso nel suo ambiente e in relazione con gli altri.

Io comunque mi definisco un riduzionista metodologico: devo ridurre la complessità della vita a poche variabili che posso controllare in laboratorio

Come descriverebbe il dibattito tra scienze umane e scienze naturali in Italia?

Guardi, come sempre si può vedere il bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Le rispondo parlando della mia esperienza. Il mio percorso di ricerca è iniziato occupandomi del rapporto mano-oggetto e del rapporto corpo-spazio. Mi sono laureato in medicina con una tesi su un modello sperimentale della sindrome Neglect (negligenza spaziale unilaterale, ndr), studiando la corteccia parietale del macaco, in particolare l’area F4. Scoperti i neuroni specchio, sono entrato in una dimensione diversa della mia ricerca: a questo punto il tema dell’intersoggettività è diventato principale. Da quel momento in poi, per me le neuroscienze sono diventate neuroscienze sociali. A partire da questo, ho percorso tre strade.

Una è quella psicopatologica, e lì la scommessa era coniugare il riduzionismo metodologico neuroscientifico con uno studio dell’esperienza psicotica in prima persona. Abbiamo iniziato a studiare la schizofrenia, assieme a Filippo Maria Ferro e agli ottimi studiosi del gruppo di Chieti. Nel 2011 è uscito il primo lavoro. L’altra strada di cui le parlavo è costituita dal rapporto tra linguaggio ed embodiment, su cui ho pubblicato molto. Devo dire che a un certo punto, non ho più trovato dottorandi cui interessasse il linguaggio e quindi ho lasciato il tema per un po’. Oggi, però, ci siamo ritornati, stimolati da uno dei filosofi italiani che stimo di più, Paolo Virno, il quale nel 2013 ha scritto un libro sulla negazione, Saggio sulla negazione. Per una antropologia linguistica, davvero molto interessante. Ora stiamo studiando il rapporto tra inibizione motoria e negazione. È ormai abbondantemente provato il legame tra, ad esempio, l’attivazione di neuroni motori e il sentire la descrizione di una certa azione. Si tratta di un dato acquisito. La vera sfida oggi, per l’embodied cognition, sono i concetti astratti e gli operatori logici.

Scoperti i neuroni specchio, sono entrato in una dimensione diversa della mia ricerca: a questo punto il tema dell’intersoggettività è diventato principale

In terzo luogo, mi sono dedicato all’estetica, o meglio alla creazione di simboli, il cosiddetto meaning making, attraverso artefatti culturali, studiandone la ricezione sempre naturalmente dalla prospettiva neuroscientifica (a tal proposito, un consiglio di lettura: Lo schermo empatico: cinema e neuroscienze, Vittorio Gallese e Michele Guerra, ndr). Da questo punto di vista, il dialogo, spesso la collaborazione, con studiosi delle scienze umane, come David Freedberg, Hannah Wojchehowski, Michele Guerra, Michele Cometa e Andrea Pinotti, sono stati fondamentali. Devo dire che, all’inizio, qualche mio collega, considerandolo un argomento un po’ troppo eccentrico per il nostro campo di ricerca, ha cercato di dissuadermi, dicendomi che era un problema cui avrei potuto pensare una volta in pensione (ride). Ad ogni modo, la radice di questi tre filoni è comune: l’essere umano è una creatura sociale, lo diceva già Aristotele, ma oggi noi possiamo fare quest’affermazione a tutti i livelli. Grazie alle neuroscienze possiamo sostanziare questa definizione sociale e relazionale dell’umano con i meccanismi neurofisiologici e corporei che la costituiscono e la sottendono. In base alle evidenze trovate, sappiamo ora che i nostri cervelli e i nostri corpi si costituiscono in relazione col resto del mondo: dipendiamo in tutto e per tutto dall’altro. Per me la relazione è fondante: da lì parte poi il processo di individuazione. Relazione – corpo – esperienza sono le tre parole chiave. Gli interrogativi a cui noi vogliamo dare una risposta, utilizzando il livello di descrizione sub-personale del cervello-corpo, non sono intrinsecamente neuroscientifici, sono quesiti psicologici e filosofici. É l’eterno interrogarsi dell’umano su sé stesso: come facciamo a capire gli altri? Perché siamo coinvolti o no negli stati emozionali degli altri? Che cos’è un simbolo? Che cos’è il linguaggio? Quali sono le radici della comunicazione? Che cosa significa costruire il senso? Le neuroscienze sono un percorso tra tanti, complementari ad altri. Io dico: è necessario studiare il cervello per parlare di queste cose? Sì. Ma è anche sufficiente? Secondo me, no.  Questo è il riassunto del mio “credo”, se vogliamo usare questo termine.

Professore, com’è fare ricerca in Italia?

Il percorso che le ho descritto è stato fatto sempre con risorse molto limitate, se si paragonano a quelle dei miei colleghi all’estero – pagati generalmente anche molto di più – e in mezzo a tante difficoltà. Un sano realismo deve farci dire che lo scenario non è dei migliori. Si deve invertire al più presto una crescente tendenza che vede tanti brillantissimi giovani ricercatori abbandonare l’Italia, spesso per sempre. Allo stesso tempo il nostro paese risulta scarsamente attraente per i giovani ricercatori stranieri. Questo bilancio negativo rischia di pregiudicare per molti anni lo sviluppo scientifico-culturale – e quindi anche economico- del nostro paese. Ma da qui ad abbracciare visioni apocalittiche ce ne passa. Ci sono qualità straordinarie tra i nostri giovani e tutte le possibilità per fare meglio. Dal mio punto di vista, poi, conta non solo quello che fai, ma anche la qualità della vita in cui lo fai. Bisogna valutare anche questi aspetti. E l’Italia, in termini di qualità della vita, rimane imbattibile.

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Alfonso Lanzieri

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